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    Che cos’è il tasso d’interesse ufficiale, chi lo decide e perché influisce sulla nostra vita

    Cari amici, il mese scorso abbiamo rievocato il decennale del fallimento della banca d’affari USA Lehman Brothers, che nel 2008 scatenò la dura crisi finanziaria le cui conseguenze soffriamo ancora oggi.

    Ci siamo lasciati ricordando che il compito primario delle banche centrali (ad esempio la Federal Reserve negli USA e la Banca centrale europea – o BCE – nell’eurozona) è il controllo dell’inflazione, che esse svolgono attuando politiche monetarie restrittive (cioè aumentando il tasso d’interesse ufficiale) per frenare la concessione di prestiti quando l’economia galoppa, o politiche monetarie espansive (cioè riducendo il tasso d’interesse ufficiale) per rendere più facili i finanziamenti quando l’economia zoppica.

    Se il tasso d’interesse (cioè l’interesse che i debitori pagano ai creditori) è basso, le banche possono erogare denaro a basso costo ai privati o alle aziende che intendono perseguire i loro progetti.

    Il difficile compito dei governatori delle banche centrali è proprio questo: stabilire nei diversi cicli economici favorevoli o sfavorevoli il tasso d’interesse più opportuno per sostenere l’espansione economica, ma senza alimentare l’inflazione (cioè l’aumento dei prezzi al consumo) oltre il tasso considerato ottimale “di poco meno del 2% annuo” perseguito dalle politiche monetarie ufficiali.

    La crisi finanziaria deflagrata con il fallimento di Lehman Brothers negli anni successivi ha costretto le banche centrali di tutto il mondo, e particolarmente dei Paesi ad economia matura dell’occidente e del Giappone, a un decennio di tassi d’interesse bassissimi, nulli o addirittura sottozero, nell’intento di stimolare l’economia incoraggiando famiglie e imprese ad indebitarsi e a spendere di più.

    Tuttavia per la gravità della crisi, e anche per il rapido mutamento della ripartizione della produzione mondiale (di cui i Paesi maturi negli ultimi anni hanno perso ampie quote a favore dei Paesi emergenti, principalmente asiatici), questa strategia non ha raggiunto lo scopo.

    Vista la scarsa efficacia della politica monetaria classica di stimolo all’economia, ossia la riduzione del tasso d’interesse ufficiale, negli anni scorsi le banche centrali hanno dovuto ricorrere a strumenti non convenzionali, primo fra tutti il cosiddetto “quantitative easing” (in sigla QE), o in italiano “allentamento quantitativo”.

    Se ne sente parlare spesso nei media, ma come accade con il famigerato “spread” (di cui ho parlato diffusamente in un articolo nel numero di giugno), l’espressione per quanto molto usata rimane sostanzialmente misteriosa.


    Prima di tutto cerchiamo dunque di chiarire di cosa si tratta, partendo dalla parola “easing”.

    Nel linguaggio finanziario anglosassone “to ease” e “easing” sono l’opposto di “to tighten” e “tightening”, e indicano rispettivamente la riduzione del tasso d’interesse ufficiale (detta anche in italiano “allentamento monetario”) oppure il suo aumento (detto in italiano anche “stretta monetaria”).

    E perché la riduzione e l’aumento del tasso d’interesse sono detti rispettivamente “allentamento monetario” e “stretta monetaria”?

    Beh, per il concetto che dicevo all’inizio: diminuire il tasso d’interesse rende più conveniente indebitarsi (“allenta” o attenua l’onere dei prestiti), mentre aumentare il tasso d’interesse ne “restringe” la convenienza.

    E perché “quantitativo”?

    Ma perché con questo meccanismo le banche centrali mettono in circolazione nel sistema economico una certa “quantità” di denaro liquido, sperando che venga speso per i consumi (dalle famiglie) o per gli investimenti (dalle aziende), stimolando così l’economia, creando posti di lavoro e riportando l’inflazione al tasso ritenuto ottimale di “poco meno del 2%”.

    Ma come avviene questo “allentamento quantitativo”, cioè in che modo le banche centrali immettono denaro fresco nel sistema economico?

    Le banche centrali stampano moneta con cui acquistano titoli di Stato (nel caso della BCE, titoli emessi dai singoli Stati partecipanti all’euro) oppure obbligazioni emesse da banche di questi Paesi.

    Un momento, sento dire qualcuno… e cosa sono queste obbligazioni…?

    Molto semplicemente: in una concessione di prestito, sono certificati che chi riceve il denaro (un’azienda o uno Stato, detti “emittente” del certificato) rilascia a chi glielo presta (detto “obbligazionista”), promettendogli di restituirgli il capitale dopo un certo numero di anni e nel frattempo di pagargli periodicamente (generalmente ogni 3, 6 o 12 mesi) un interesse (fisso, o variabile a seconda di determinati eventi) concordato tra le parti, detto “cedola”.

    Dunque, dicevo che la Banca centrale europea (prendiamo ad esempio la BCE, perché è quest’istituto che decide la politica monetaria dell’eurozona) emette euro e con quelli acquista le obbligazioni.

    Arrivate a scadenza, le obbligazioni si estinguono, gli obbligazionisti restituiscono alla BCE il denaro ricevuto in prestito e il cerchio si chiude.

    Questo meccanismo, che la BCE ha iniziato ad attuare nel 2015 seguendo l’esempio della Federal Reserve statunitense e della Banca del Giappone che già vi ricorrevano da anni, prevedeva l’immissione in circolazione di somme ingenti di denaro liquido: ben 60 miliardi di euro al mese, con cui venivano acquistati titoli di Stato. All’inizio del 2018 però l’ammontare degli acquisti mensili di obbligazioni è stato ridotto a 30 miliardi ed è stata annunciata la chiusura definitiva del meccanismo proprio alla fine dell’anno in corso, anche se – ha annunciato il presidente della BCE Mario Draghi – fino all’autunno del 2019 (quando tra l’altro scadrà il suo mandato) gli importi delle obbligazioni in scadenza e rimborsate continueranno ad essere reinvestiti.

    L’entrata in circolazione di somme di denaro così ingenti ha avuto anche l’effetto di tenere basso il tasso d’interesse commerciale, cioè quello che le banche chiedono ai clienti quando concedono i mutui: un vantaggio non da poco per i bilanci delle famiglie e che spesso non viene considerato abbastanza, dandolo per scontato mentre non lo è affatto.

    Infatti come dicevo questi tassi bassissimi vigono da circa 10 anni, quindi considerando che una persona non comincia ad interessarsi di mutui e prestiti prima dei 25 anni, ne consegue che chi oggi ha meno di 35 anni praticamente nella sua vita non ha mai conosciuto nient’altro che tassi bassi.

    Ma chi scrive ha vissuto personalmente periodi in cui l’inflazione annua girava intorno al 20%, cioè ogni anno il potere d’acquisto del tuo denaro perdeva il 20%, o altrimenti detto qualsiasi cosa tu dovessi comprare costava il 20% in più, e naturalmente il tasso d’interesse ufficiale e quello bancario si adeguavano all’inflazione (di cui ho parlato diffusamente in un articolo nel numero di luglio).

    Ora, mutate le condizioni dell’economia mondiale, la lunga pacchia dei tassi d’interesse bassi si avvia lentamente ma inesorabilmente alla fine.

    Da notare, fra l’altro, che chiudendo il rubinetto dell’allentamento quantitativo il capitale delle obbligazioni precedentemente messo in circolazione dalla BCE le viene restituito, il sistema quindi perde denaro liquido e la minore quantità di denaro in circolazione ne farà aumentare il costo, cioè il tasso d’interesse.

    Il motivo è che gli Stati Uniti sono tornati in pieno boom e la loro economia non ha più bisogno di essere stimolata tenendo basso il tasso d’interesse, anzi è necessario alzarlo per frenare l’inflazione, tanto che la Federal Reserve quest’anno lo ha già aumentato tre volte e tutti gli analisti prevedono un altro aumento a dicembre e altri ancora il prossimo anno.

    Tutti i Paesi (europei e non, aderenti all’euro o no) prima o poi dovranno adeguarsi, anche perché i capitali internazionali vanno ad investire dove i soldi rendono di più, cioè negli Stati Uniti.

    Inoltre dall’autunno 2019 Mario Draghi non sarà più il presidente della BCE ed è probabile che il suo successore (si fa molto il nome del tedesco Jens Weidmann) voglia seguire una politica monetaria diversa e più restrittiva, quindi per tutti questi motivi il tasso d’interesse ufficiale dell’eurozona dovrà aumentare tirandosi dietro i tassi d’interesse commerciali fra cui, tanto per fare un esempio semplice, quello del mutuo per comprare l’appartamento o la macchina nuova.

    Chi ha già stipulato un mutuo a tasso fisso non avrà sorprese, ma chi l’ha stipulato a tasso variabile pensando di risparmiare (e finora è stato così) grazie al tasso molto basso, si vedrà aumentare la rata, così come se ne dovrà stipulare uno nuovo di qualsiasi tipo.

    Anche gli Stati dovranno pagare interessi più alti agli investitori internazionali che finanziano il loro debito pubblico acquistando le loro obbligazioni.

    Ne risentirà in modo particolare l’Italia, che ogni anno deve trovare nuovi acquirenti per ben 380 MILIARDI di euro di obbligazioni in scadenza.

    Ciò, ovviamente, a prescindere se questi nuovi titoli siano denominati in euro o in un’altra ipotetica valuta che lo sostituisse, perché le necessità di spesa di uno Stato non mutano qualunque valuta usi, ma cambia solo il nome della moneta.

    Finora anzi una certa percentuale del debito pubblico italiano era acquistato dalla BCE con il meccanismo dell’allentamento quantitativo, ma ora questo sbocco si andrà sempre più restringendo fino a chiudersi completamente.

    Purtroppo quindi devo esprimere una previsione generalmente pessimistica sull’andamento del tasso d’interesse, il cui rialzo sicuramente non farà bene all’economia italiana già malandata per conto suo.

    Questo (salvo sconvolgimenti imprevedibili) solo dal 2020 in poi (ma non è poi così lontano!), perché Draghi ha già detto chiaramente che fino a quando ci sarà lui alla guida della BCE il tasso d’interesse ufficiale dell’eurozona non si tocca… poi si vedrà, ma la strada pare segnata.

    Francesco D’Alessandro

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