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    Torna l’inflazione – 3a parte

    Cari amici, rinvio alla fine gli auguri e apro direttamente questa terza parte del nostro giro d’orizzonte sul ritorno dell’inflazione, invitando chi volesse approfondire più tecnicamente l’argomento a leggere l’articolo pubblicato da questo giornale a pagina 16 del numero di luglio 2018.

    Il mese scorso avevo chiuso la seconda parte parlando delle cause dei rincari – tra gli altri – dell’elettricità, del petrolio e dei noli dei container.

    Con la progressiva riapertura dell’economia dopo la fase più acuta della “pandemia” è salito anche il prezzo del gas, la cui domanda supera l’offerta per una serie di concause, dall’aumento repentino della domanda dopo molti mesi di blocco praticamente totale a contrasti politici internazionali.

    Purtroppo il fabbisogno energetico non solo italiano ma europeo in generale, con qualche eccezione di cui dirò tra poco, è soddisfatto prevalentemente da centrali termoelettriche alimentate a metano, perché le energie rinnovabili non sono sufficienti.

    Allora, si dirà, convertiamo tutto subito a questo tipo di alimentazione…! ma purtroppo non è così semplice come sostengono gli studenti nei loro cortei del venerdì senza scuola.

    La prima difficoltà che viene in mente è la discontinuità: infatti il fabbisogno di energia non si interrompe di notte o quando diluvia o nevica o quando non c’è vento; e le altre fonti come la geotermia, l’idroelettricità e le biomasse sono idee suggestive, ma non bastano oggi né basteranno mai a soddisfare se non in minima parte l’enorme fabbisogno energetico del mondo odierno.

    A questo difetto si potrà forse ovviare col tempo con dispositivi capaci di immagazzinare e rilasciare a richiesta l’energia accumulata – in pratica, delle colossali batterie – ma non è un’ipotesi realizzabile in tempi brevi, se mai lo sarà.

    Un altro difetto è la bassa densità energetica di queste fonti di produzione, cioè l’ampio spazio fisico necessario rispetto all’energia prodotta: se si pensa di sostituire integralmente le fonti tradizionali con quelle rinnovabili, a parte tutte le altre difficoltà, occorrerebbe destinare esclusivamente a questo scopo superfici enormi.


    Ultimamente si è parlato molto di automobili elettriche, anzi ricordo di aver letto tempo fa che qualche Paese ha addirittura programmato entro pochi decenni la sostituzione integrale dei motori a combustione con quelli elettrici. Sarà stato un caso, ma… paaaafff… proprio quando quest’innovazione sembrava lanciatissima, ecco l’impennata del costo dell’elettricità, che – ricordo ancora una volta – è prodotta in grandissima parte da fonti NON rinnovabili. Intendiamoci, a me maliziosamente piacerebbe molto che il petrolio diventasse solo un inutile liquido nerastro, viscido e maleodorante, e che gli sceicchi, a cui la natura ha fatto l’immeritato dono di conservare nel loro sottosuolo i preziosi idrocarburi, tornassero fare i pastori di capre nel deserto, ma una domanda mi sorge spontanea: supponiamo che in tempi brevi il parco automobilistico diventi interamente elettrico, cioè che alla fine della giornata prima di andare a dormire tutti noi collegassimo la batteria dell’automobile all’apposita presa in garage e che la mattina la ritrovassimo già carica… fantastico!

    Ma… DA QUALI FONTI… sarà prodotta l’enorme quantità di energia elettrica necessaria per ricaricare a ciclo continuo il quasi miliardo e mezzo di autoveicoli già circolanti nel mondo, che secondo le stime nel 2035 raggiungeranno i 2 miliardi, e gli oltre 300 milioni oggi circolanti in Europa…?

    Forse (sto sorridendo ironicamente) bruciando carbone e idrocarburi…?

    O non mi verrete a raccontare che le automobili saranno alimentate dall’energia solare…!

    Razionalmente, se veramente si volesse elettrificare totalmente i trasporti, l’unica opzione possibile sarebbe l’energia nucleare, che del resto necessita di un altro prezioso minerale: l’uranio, però sostituibile a fini civili con il torio, molto più abbondante in natura.

    Insisto sull’argomento perché, ovviamente, il maggiore o minor costo dell’energia è una componente fondamentale della maggiore o minore inflazione.

    L’Italia decenni fa ha fatto la scelta irrazionale – purtroppo una delle sue tante – della rinuncia al nucleare; dico irrazionale prima di tutto perché 3 Paesi (Francia, Svizzera e Slovenia) dei 4 con cui l’Italia confina a nord operano centrali nucleari, quindi un eventuale incidente (che finora non c’è stato, né si vede perché dovrebbe esserci in futuro) non la lascerebbe indenne; e secondariamente perché, come ricordavo più sopra, la riconversione integrale alle energie rinnovabili è molto lontana, ammesso che mai potrà avvenire nonostante i cortei degli studenti tanto vezzeggiati dai politici.

    L’incidente di Chernobyl poté accadere solo per l’imbecille incuria di burocrati incompetenti che in un Paese comunista pensavano unicamente a far carriera nel partito riempiendosi la bocca di chiacchiere politicamente corrette, situazione che d’altronde mi pare si stia progressivamente realizzando anche nell’Unione europea e particolarmente in Italia.

    Ricordo che intorno al 2010 in Italia si ricominciava timidamente a parlare di opzione nucleare, ma il maremoto di Fukushima terrorizzò gli italiani (del resto per loro natura facilmente terrorizzabili) e seppellì nuovamente il dibattito.

    Sta di fatto che in Giappone, Paese tecnologicamente avanzatissimo, ma completamente privo di fonti energetiche e che senza energia vedrebbe crollare la sua economia, le centrali nucleari continuano a funzionare, semplicemente perché realisticamente il Paese non ha alternative.

    La Francia (tra l’altro rimasta l’unica potenza dell’UE dotata dell’arma atomica dopo la Brexit) da decenni ci vende l’energia elettrica prodotta dalle sue ben 59 centrali atomiche (alcune delle quali distanti poco più di 100 km dal territorio italiano), che coprono il 70% del suo fabbisogno elettrico, ed a metà novembre il presidente Macron ha annunciato ufficialmente in un discorso televisivo l’intenzione di avvicinarsi il più possibile all’autosufficienza totale rilanciando il programma nucleare nazionale e costruendo nuove centrali, per le quali è stato stanziato un miliardo di euro; e la Germania, che tempo fa aveva annunciato la graduale dismissione delle sue centrali atomiche, probabilmente sarà costretta dagli eventi a ripensarci.

    Insomma, considerato che oggi esiste il nucleare di quarta generazione, e che di questi tempi si stanno sdoganando con gran squillare di trombe tante “problematiche” più o meno sensate… si potrebbe sdoganare anche quest’argomento nient’affatto stupido e discuterne.

    Ma come al solito arriveremo in ritardo, e se mai sarà dovremo comprare la tecnologia dai francesi.

    Dopo questo esame sommario delle circostanze che hanno favorito la recente impennata dell’inflazione, torniamo al futuro.

    Come ricordavo nelle puntate precedenti, Jerome Powell e Christine Lagarde sua imitatrice (per quanto glielo permettono le sue capacità personali e istituzionali, si capisce…), governatori rispettivamente della Federal Reserve statunitense e della Banca centrale europea, per non dover attuare una politica monetaria restrittiva che stroncherebbe sul nascere la stentata ripresina economica avviata dopo l’immane disastro causato dalla “pandemia”, su istigazione dei governi, che per qualche motivo insistono sulla strada intrapresa, nei mesi scorsi si sono affannati a spiegare (e ora lo dico: in perfetta malafede, perché quello che capito io potevano capirlo anche loro…) che l’impennata dell’inflazione negli ultimi mesi sarà “temporanea”; ma logicamente – come il sottoscritto scriveva già mesi fa, contraddicendo i due governatori – non sarà così, perché inevitabilmente le aziende dovranno scaricare sui prezzi al consumo i rincari dei loro costi produttivi, che non mostrano segni di rallentamento.

    Infatti il 15 novembre in un’audizione dinanzi al Parlamento europeo Lagarde ha dovuto sforzarsi ad ammettere che “l’inflazione diminuirà più lentamente del previsto”, ma nello stesso tempo ha dichiarato che nel 2022 la BCE non aumenterà il tasso d’interesse, e la stessa ammissione sulla persistenza dell’inflazione ha fatto Powell all’inizio di dicembre.

    Infatti è concreto il rischio che l’inflazione sfugga di mano e che se le Banche centrali non interverranno tempestivamente, come con riluttanza cominciano a riconoscere di dover fare, si inneschi una spirale di aumenti di costi e prezzi che poi sarà molto difficile spezzare.

    L’inflazione è una vera e propria tassa occulta e iniqua, che falcidiando i redditi e il potere d’acquisto deprime l’economia e può degenerare nella stagflazione, ossia nella micidiale tenaglia composta dai flagelli congiunti dell’inflazione e della stagnazione, in cui alla perdita di potere d’acquisto di salari e risparmi si aggiunge la depressione dei consumi e dell’occupazione.

    E difatti ci troviamo in una fase molto propizia alla stagflazione, perché il rincaro dei prezzi non è originato da una vigorosa e salutare ripresa dell’economia, bensì – mentre quest’ultima faticosamente cerca di rimettersi dal durissimo colpo inflittole dalla “pandemia” – dall’inflazione importata, cioè causata dai rincari delle materie prime provenienti dall’estero e dei trasporti internazionali di merci, che inevitabilmente si scaricano sui prezzi finali al consumo. L’arma principale a cui ricorrono in queste situazioni le Banche centrali – cioè l’aumento del tasso d’interesse, per ridurre la circolazione di denaro rendendo più onerosi i prestiti – è inefficace, anzi serve solo a deprimere ulteriormente l’economia già in affanno.

    Del resto le politiche di rianimazione dell’economia non sarebbero compito delle Banche centrali ma dei governi, i quali però, in tutt’altre stupidaggini affaccendati, premono sulle Banche centrali affinché siano queste a togliergli almeno in parte le castagne dal fuoco rendendo più conveniente indebitarsi per comprare e – teoricamente – per investire.

    Ma la stagflazione può essere provocata anche dall’espansione eccessiva della moneta circolante senza corrispondenti aumenti della produttività e della ricchezza reale, “strategia” da tempo perseguita nell’eurozona a imitazione del “quantitative easing”, o “allentamento quantitativo”, concepito tempo fa dall’ex governatore della Federal Reserve, Alan Greenspan.

    In pratica il meccanismo consiste nell’acquisto da parte di una Banca centrale di obbligazioni emesse dallo Stato o da aziende; così la Banca centrale si mette in cassaforte questi pezzi di carta (beh… siamo buoni e chiamiamoli tecnicamente “certificati obbligazionari”…) rappresentativi del debito degli emittenti statali o aziendali, e in cambio stampa e mette in circolazione moneta, a cui però – lo ricordo ancora perché è importante – NON corrisponde un aumento della ricchezza prodotta.

    Nelle intenzioni degli “strateghi” delle Banche centrali questo aumento della moneta circolante dovrebbe stimolare i consumi e quindi rianimare l’economia, ma in periodi di crisi spesso proprio l’incertezza convince i beneficiari a tenere “sotto il materasso” gli importi ricevuti invece di spenderli, vanificando l’intento.

    Alla scadenza di queste obbligazioni teoricamente l’azienda o lo Stato emittente dovrebbero riprendersi i pezzi di carta – cioè, ehm, volevo dire…. i certificati obbligazionari – e restituire il denaro alla Banca centrale, ma negli ultimi anni ciò non è avvenuto e i prestiti sono stati quasi sempre rinnovati per non ridurre la quantità di denaro pompata nell’economia.

    Secondo le notizie disponibili al momento in cui scrivo (metà dicembre) la Federal Reserve sembra intenzionata ad avviare tra pochi mesi il cosiddetto “tapering”, ossia la riduzione degli acquisti di obbligazioni nell’ambito del “quantitative easing” – riduzione che nel 2013 seminò nei mercati finanziari mondiali l’ondata di panico passata alla storia come “taper tantrum” – e forse ad aumentare una o due volte nel 2022 il tasso d’interesse… in questo probabilmente non seguita dalla Banca centrale europea, che continuerà a finanziare a bassissimo costo le spese folli dei governi inetti e timorosi che una politica meno dissennata convinca gli elettori, ormai assuefatti alla droga dei “sussidi”, dei “ristori a fondo perduto” e del “reddito perché esisti”, a togliergli con un voto scontento le loro ben pagate poltrone.

    Dunque avanti tutta con il Paese di Bengodi, profeticamente descritto così da Giovanni Boccaccio nel Decamerone: “…una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce e avevasi un’oca a denaio e un papero giunta; ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciola d’acqua.”

    Intanto Pinocchio si istruisce nel Paese dei Balocchi, “dove non vi sono scuole, non vi sono maestri, non vi sono libri.

    In quel paese benedetto non si studia mai: il giovedì non si fa scuola, e ogni settimana è composta di sei giovedì e di una domenica.”

    Viviamo dunque nel migliore dei mondi possibili…? beh, secondo me non proprio, però ricordo bene la celeberrima battuta di Alberto Sordi nel “Marchese del Grillo”, e sono consapevole di quanto conto io (e anche di quanto contate voi lettori, beninteso) rispetto a “quelli lassù”.

    E quindi… per finire non mi resta che augurarvi un FELICE 2022!

    Francesco D’Alessandro

     

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