A mezzanotte del 30 giugno 1997, durante un’impressionante cerimonia teletrasmessa in tutto il mondo, calò il sipario sul negoziato per il ritorno di Hong Kong alla Cina, iniziato 18 anni prima tra Margaret Thatcher e Deng Xiaoping, e la bandiera dell’Union Jack fu ammainata nella (ormai ex) colonia, segnando dopo 156 anni la fine del dominio del Regno Unito sul suo ultimo possedimento asiatico, e in pratica anche il tramonto definitivo dell’ex impero britannico, su cui appena 100 anni prima letteralmente non tramontava mai il sole.
Vi assistettero in rappresentanza del Regno Unito il Principe Charles (che forse 23 anni fa nutriva ancora qualche speranza di succedere all’inossidabile madre sul trono di una delle più iconiche monarchie mondiali…), il primo ministro Tony Blair da poco eletto, il ministro degli esteri Robin Cook e l’ultimo governatore Chris Patten, e per la Repubblica popolare cinese il presidente Jiang Zemin e il primo ministro Li Peng.
Secondo la dichiarazione congiunta sino-britannica, firmata dai due governi il 19 dicembre 1984 a Pechino, per 50 anni (dal 1997 al 2047), a Hong Kong, denominata dai cinesi SAR (Special Administrative Region, o Regione amministrativa speciale), non sarebbe stato applicato il regime politico-economico socialista della madrepatria, mantenendovi invece, almeno parzialmente, un sistema parlamentare e capitalista; invece gli affari esteri sarebbero stati di competenza del governo di Pechino, che avrebbe avuto anche l’ultima parola sull’interpretazione della Basic Law (Legge fondamentale), ossia la mini-costituzione che per quei 50 anni avrebbe regolato l’esistenza del Territorio.
Prima del passaggio dei poteri l’ultimo governatore britannico Chris Patten – non un diplomatico di carriera come i suoi predecessori, ma un politico a tutti gli effetti ed ex parlamentare – introdusse nell’ordinamento della SAR riforme politiche ed elettorali che all’epoca causarono più di una frizione con il governo cinese, e che oggi si rivelano un astuto meccanismo a orologeria che sta causando alla Cina non pochi grattacapi.
Ora attenzione alle date: come dicevo, secondo l’accordo questo assetto, sintetizzato nella formula “un Paese, due sistemi”, durerà FINO AL 2047, dopodiché Hong Kong rientrerà A TUTTI GLI EFFETTI POLITICI ED ECONOMICI nel seno della Repubblica popolare cinese.
Poiché siamo quasi a metà di questo percorso e il calendario scorre implacabile, è comprensibile che se da una parte i cittadini di Hong Kong, vedendo profilarsi all’orizzonte la fine del loro privilegiato regime economico-politico, vorrebbero allontanarla o addirittura rinviarla indefinitamente, sul fronte opposto Pechino vorrebbe già da ora iniziare a restringere l’autonomia, per non giungere al 2047 avendo ancora interamente da compiere, senza nessuna gradualità intermedia, il traumatico salto tra due sistemi politici ed economici radicalmente diversi.
A me il nocciolo della questione sembra essere proprio questo: un insanabile contrasto di interessi e di volontà che dovrà avere un vincitore e uno sconfitto, su cui pesa una scadenza temporale ineliminabile ed al quale ora si intrecciano nuove situazioni, come il sempre più acceso scontro tra gli Stati Uniti, rimasti l’unica superpotenza mondiale dopo lo sgretolamento dell’Unione Sovietica, e la Cina, che ambisce con sempre maggior forza a contendergli questo ruolo.
Il primo giro di vite fu tentato dalla Cina nel 2014, con l’annuncio di una riforma elettorale secondo cui dal 2017 il capo del governo locale sarebbe stato eletto dalla popolazione, ma solo fra i candidati (tre al massimo) designati dal Comitato elettorale di Hong Kong, controllato da Pechino; inoltre a conclusione del processo il governo cinese avrebbe avuto il potere di convalidare o bocciare l’esito elettorale.
Gli oppositori reagirono con le prime manifestazioni di piazza della cosiddetta “rivoluzione degli ombrelli”, usati dai manifestanti per ripararsi dagli spray urticanti e dai gas lacrimogeni lanciati dalla polizia.
Gli eventi cominciarono ad accelerare a giugno 2019, dopo una proposta di modifica della legge sull’estradizione, che se approvata dal parlamento di Hong Kong avrebbe permesso di processare in Cina gli accusati di alcuni reati, tra cui l’omicidio.
La legge incontrò subito una forte opposizione, perché considerata un tentativo cinese di insinuarsi nel sistema giuridico di Hong Kong, che poi avrebbe permesso a Pechino di estradare e processare in Cina oppositori politici accusati di falsi reati.
Dopo accese proteste di piazza e violenti scontri con la polizia, la governatrice Carrie Lam, eletta nel 2017 e ritenuta fedele a Pechino, annunciò la sospensione dell’emendamento, ma le proteste popolari non cessarono e anzi si intensificarono, apparendo ormai chiara la strategia dei progressivi giri di vite perseguita da Pechino.
Ed eccoci giunti in precario equilibrio alla svolta del 2020, in cui l’aspro scontro locale di Hong Kong comincia a intersecarsi in accelerazioni sempre più violente con altri gravi focolai di crisi mondiali, dall’epidemia di Covid-19 all’imminente elezione presidenziale statunitense, in cui il vantaggio di Trump, fino a poco tempo apparentemente inattaccabile, è sempre più eroso dal rivale Biden.
Il 22 maggio scorso, in piena pandemia mondiale del Covid, inizia in ritardo di qualche mese il Congresso nazionale del Popolo cinese, la massima assemblea della Repubblica popolare, da cui emerge immediatamente una drammatica notizia: evidentemente la Cina, senza farsi scrupoli né esitazioni, decide di tagliare il nodo presentando al Congresso la bozza di una “legge di sicurezza nazionale”, da inserire nella Basic Law di Hong Kong, che sanzionando pesantemente i reati di eversione contro lo Stato, secessione, terrorismo e collaborazione con potenze straniere, si presta a interpretazioni distorte con cui colpire gli oppositori politici.
Pochi giorni dopo, il 28 maggio, il Congresso nazionale del Popolo vidima la Legge di sicurezza nazionale di Hong Kong, che dovrebbe essere promulgata definitivamente ad agosto senza necessità di approvazione da parte del parlamentino locale.
Tra l’altro la nuova legge autorizza l’apertura nella SAR di un ufficio cinese per la sicurezza, senza dimenticare che nell’ex colonia britannica è stanziata da tempo una guarnigione di 5.000 soldati dell’esercito popolare, che finora sono rimasti nell’ombra perché Pechino è consapevole del vespaio che un intervento militare solleverebbe, ma che nella peggiore delle ipotesi svolgerebbero senza esitazione il loro compito di repressione.
Probabilmente il governo di Pechino si è deciso all’azione per togliersi dal fianco la spina di Hong Kong in un periodo in cui già si addensano sui suoi vertici violente accuse di avere mentito sull’inizio della pandemia a Wuhan, mentre si intensifica il conflitto commerciale e politico con gli Stati Uniti.
Questi ultimi hanno reagito minacciando la revoca dello status privilegiato concesso a Hong Kong proprio in virtù della sua autonomia, grazie al quale la SAR svolge il ruolo – enormemente utile anche alla Cina – di ponte tra l’economia cinese e l’Occidente.
A novembre 2019 negli Stati Uniti è stata approvata una legge secondo cui la prosecuzione dello status speciale, che concede dazi commerciali ridotti, da ora in poi sarà subordinata alla dichiarazione annuale del Secretary of State (il ministro degli affari esteri statunitense) che Hong Kong ancora usufruisce di una larga autonomia, ma il 27 maggio il Secretary of State Mike Pompeo ha appunto dichiarato che ora Hong Kong non gode più di quell’autonomia; da notare che nel 2018 gli scambi commerciali tra USA e Hong Kong sono ammontati a 67 miliardi di dollari e che molti produttori cinesi esportano in occidente le loro merci transitando da Hong Kong.
Indubbiamente gli USA, almeno con Trump presidente, cercheranno di aumentare la pressione sulla Cina appoggiando gli attivisti di Hong Kong, che così diventa una pedina nella vasta scacchiera su cui si gioca tra i due colossi la partita per il dominio planetario.
Probabilmente nell’elezione presidenziale di novembre la Cina farà il tifo per Biden, l’ex vicepresidente di Obama, che lo appoggia apertamente e di cui verosimilmente proseguirà la politica più accomodante.
Sfortunatamente per Trump, e anche per Hong Kong, per uno straordinario caso della storia il 25 maggio la morte dell’afroamericano George Floyd per mano di un agente di polizia ha scatenato negli USA e nel mondo occidentale una serie di violente proteste che hanno distolto l’attenzione del pubblico dagli eventi nella SAR, dove i manifestanti maltrattati dalla polizia hanno cercato di copiare con lo slogan “Young Lives Matter” (le vite dei giovani sono importanti) quello dei manifestanti americani “Black Lives Matter” (le vite dei neri sono importanti). Io non sono un complottista, ma se lo fossi ci sarebbe qualche circostanza su cui riflettere… comunque, come finirà?
Francamente sono pessimista per Hong Kong: lo strapotere della Repubblica popolare rispetto alla SAR è enorme, gli Stati Uniti – fiaccati da decenni di opulenza e sempre più lacerati da aspre divisioni politiche e sociali interne – sono sul viale di un lento ma inesorabile tramonto, e Pechino è consapevole che dal suo punto di vista è indispensabile togliersi quella spina dal fianco prima che si incancrenisca.
Poiché i cinesi non si creano gli scrupoli intellettuali che sono diventati la principale occupazione mentale dell’occidente, credo che sceglieranno il male per loro minore, cioè pagare un prezzo economico pur di silenziare Hong Kong e farla rientrare al più presto nei ranghi – anche prima dei 26 anni di relativa autonomia che legalmente le restano – tanto più che di spina nel fianco, e anche più acuminata, ne hanno anche un’altra: Taiwan, e non vorranno commettere l’errore di combattere su troppi fronti.
Gli USA protesteranno, ma – specialmente se il prossimo presidente sarà Biden – non potranno né vorranno fare più di tanto… oltre ai “deploriamo” e “auspichiamo” di rito naturalmente.
In attesa del 2047 la “normalizzazione” di Hong Kong proseguirà nel maggior silenzio possibile, mentre in occidente i paladini della giustizia e della libertà, invece di studiare e capire la storia, si dedicheranno con passione a bandire film vincitori di Oscar e ad abbattere statue di personaggi politici di decenni o secoli fa.
E già che siamo in argomento, dell’altra ben più affilata spina nel fianco della Cina, ossia Taiwan, vi parlerò il mese prossimo.
Se pensiamo che tutto ciò non ci riguardi commettiamo un grave errore: avendo da tempo rinunciato alla capacità di influire direttamente sul nostro destino, evidentemente il nostro futuro dovrà dipendere dalla piega che prenderanno gli eventi nelle aree dove risiedono gli odierni dominatori del mondo e quelli che aspirano a prenderne il posto.
Francesco D’Alessandro