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    Crisi bancarie e dintorni

    Cari lettori, dopo la divagazione dell’amarcord sulla Tailandia nel numero di aprile, oggi torniamo a parlare di economia.

    Il 10 marzo scorso negli Stati Uniti ha chiuso per sempre i battenti la Silicon Valley Bank (in breve SVB), un istituto finanziario di media grandezza a livello nazionale ma di primo piano nella ricchissima Silicon Valley californiana, così chiamata per l’uso del silicio nella produzione intensiva di microcircuiti, oltre che sede di colossi a vario titolo del web come Adobe, Apple, Cisco, eBay, Google, Meta (il nuovo nome di Facebook), Microsoft e Yahoo.

    Dopo il tracollo di SVB un’ondata di panico ha attraversato il mondo, tristemente memore della rovinosa crisi finanziaria mondiale innescata dal fallimento di Lehman Brothers nel 2008 (se qualcuno volesse approfondire ho rievocato in dettaglio quella drammatica vicenda nel numero di novembre 2018 di questo giornale).

    Il fallimento di SVB è stato seguito a ruota da quello dell’altra banca statunitense Signature Bank e in Europa dal tracollo del colosso svizzero Credit Suisse.

    Il fulmineo intervento dei governi a spese dei contribuenti, sui quali “naturalmente” sono stati scaricati i costi dei salvataggi, ha tamponato la situazione e potrebbe aver temporaneamente scongiurato guai peggiori… ma come ci siamo arrivati, e cosa potrebbe ancora accadere?

    Per capirlo partiamo dall’inizio della catena di eventi che ci ha portato fin qui.

    Nel 2020 e 2021 i governi hanno ritenuto opportuno “sostenere i redditi” di famiglie ed imprese, inariditi dai confinamenti, dalle chiusure delle attività economiche e dal conseguente blocco del commercio interno ed estero durante la “pandemia”, erogando a pioggia ogni tipo di sussidi (noti in Italia anche come “bonus”); denaro che però, non crescendo sugli alberi – nemmeno nella ricca America – inevitabilmente è stato scovato nell’unica fonte possibile di finanziamento: prendendolo a prestito, cioè emettendo obbligazioni dello Stato, a quel tempo ai tassi d’interesse bassissimi collaborativamente stabiliti “per sostenere l’economia” dalle rispettive Banche centrali, cioè la BCE nell’eurozona e la Federal Reserve negli Stati Uniti.

    Quest’enorme massa di denaro rovesciata nel sistema finanziario – in pratica carta straccia proveniente non da un aumento reale della ricchezza generata da lavoro e produzione, bensì solo dall’azionamento di rotative – non poteva dopo qualche tempo che avere l’unica inevitabile conseguenza che infatti sta avendo: l’impennata dell’inflazione, che rincarando prezzi e tariffe distrugge il potere d’acquisto dei nostri redditi e quindi il nostro tenore di vita (di inflazione e tassi d’interesse ho parlato in tre articoli a luglio e dicembre 2018 ed a novembre 2021, a cui rimando chi volesse approfondire l’argomento).


    Inizialmente Christine Lagarde e James Powell, i due cantastorie a cui la sorte – o chissà quale magheggio politico, o il diavolo – ha conferito la direzione della BCE e della Federal Reserve, ci giuravano su quanto avevano di più caro al mondo che l’inflazione sarebbe stata “temporanea”; quanto per incompetenza o malafede – o più probabilmente per entrambe – avessero torto purtroppo ce lo stanno dimostrando i fatti.

    Resisi conto dell’errore, o non potendo più reggere la finzione, per stroncare l’inflazione i due venditori di fumo hanno repentinamente invertito la rotta ricorrendo al metodo classico: dosi massicce e reiterate di aumento del tasso d’interesse di riferimento, che si ripercuote a catena su qualsiasi tipo di finanziamento a privati e imprese, tra cui importantissimi per i comuni mortali i mutui per l’acquisto di abitazioni ed i tassi d’interesse dei titoli pubblici emessi dagli Stati.

    Fatta questa prima considerazione, per capire le cause del fallimento di SVB e di Signature Bank, e del conseguente panico finanziario che ha percorso il mondo, è indispensabile anche avere chiaro il concetto di “rendimento”, ossia dell’interesse che un investitore percepisce da un’obbligazione privata o statale; interesse che ovviamente è l’unico motivo che può indurre una persona a privarsi temporaneamente della disponibilità del proprio denaro prestandolo ad altri.

    Per chiarire il concetto semplificando al massimo, supponiamo che il tasso di riferimento stabilito da una Banca centrale sia dell’1% annuo e che uno Stato emetta un’obbligazione annuale a questo tasso dell’1%: ciò significa che un investitore che sottoscriva 1.000 euro di quell’obbligazione, trascorso l’anno pattuito riceverà il rimborso dei suoi 1.000 euro più l’1% d’interesse, cioè in totale 1.010 euro; quell’1% – ossia i 10 euro – è il suo “rendimento”.

    Ma supponiamo ancora che qualche mese dopo, prima che scada l’anno dell’obbligazione già citata, per combattere l’inflazione o per qualche altro motivo quella Banca centrale aumenti il tasso di riferimento dall’1% al 3%: allora se gli emittenti pubblici o privati di obbligazioni vorranno trovare investitori che gli prestino i loro soldi non potranno più offrire 1’1% d’interesse, bensì dovranno concedere il 3%, e di conseguenza allo scadere dell’anno un loro sottoscrittore non percepirà più 10 euro d’interesse bensì 30.

    Però questa nuova situazione causa un problema a chi aveva acquistato l’obbligazione precedente emessa all’1% e ancora in circolazione: se quell’acquirente potrà aspettare la scadenza recupererà ugualmente i suoi 1.000 euro di capitale, ma se per qualche motivo avesse necessità di venderla prima che scada non troverà chi gliela compri al valore nominale di 1.000 euro – perché le obbligazioni di nuova emissione ora fruttano il 3% d’interesse invece del precedente 1% – e quindi il venditore dovrà abbassare il prezzo diciamo a 980 euro, cioè vendere il titolo in perdita, in modo che quando il nuovo acquirente alla scadenza riceverà il rimborso di 1.000 euro, sommando i 20 euro di guadagno sul prezzo e i 10 euro d’interesse all’1%, percepirà un rendimento complessivo pari al nuovo tasso del 3%.

    Chiarito questo concetto, in che modo ciò ha determinato il tracollo di SVB?

    Per loro natura le banche si indebitano a breve termine, accettando i depositi dei correntisti che possono ritirarli quando vogliono, e investono a lungo termine, ad esempio concedendo mutui immobiliari o sottoscrivendo titoli di Stato.

    È una strategia lucrosa – perché le banche oggi non pagano più interessi passivi ai depositanti, ma li percepiscono dai titoli pubblici o privati in cui investono quei depositi – ma evidentemente rischiosa per lo scarto temporale che esiste tra gli uni e gli altri: infatti come dicevo le obbligazioni o i mutui sono rimborsati in tempi lunghi, mentre i depositanti possono prelevare i loro soldi in qualsiasi momento.

    Ultimamente, per contrastare l’inflazione creata dai governi stessi con i cospicui “sussidi” erogati a pioggia durante la “pandemia”, e dalle stesse Banche centrali che avevano “collaborativamente” ridotto al minimo il tasso d’interesse per rianimare l’economia strangolata dalle restrizioni “sanitarie”, le Banche centrali hanno invertito drasticamente la rotta aumentando ripetutamente e massicciamente il tasso d’interesse di riferimento.

    Il rialzo del tasso d’interesse influisce sulle banche commerciali perché, come dicevo poco fa, il deprezzamento del valore di realizzo dei titoli di Stato, sottoscritti precedentemente e ancora in portafoglio, comporta la loro vendita in perdita se per qualche motivo i sottoscrittori avessero bisogno di liquidità immediata… come infatti è accaduto, perché il cospicuo aumento del tasso d’interesse offerto dai titoli di Stato USA di nuova emissione ha convinto molti depositanti a prelevare i loro soldi dai conti bancari per sottoscrivere quelle obbligazioni.

    Proprio questo è successo a SVB: massicciamente investita in titoli pubblici, nei giorni precedenti il 10 marzo per far fronte ai prelievi dovette vendere in perdita il controvalore nominale di ben 28 miliardi di dollari di obbligazioni in portafoglio, subendo di conseguenza una micidiale minusvalenza di 1,80 miliardi; e per tappare il buco annunciò subito dopo un aumento di capitale di 2,30 miliardi però sgradito agli azionisti, che non volendo sborsare quattrini per ricapitalizzare una banca in grave difficoltà vendettero in massa le sue azioni facendone crollare la quotazione da 267 a 106 dollari ad azione (-60%!) in una sola seduta di Borsa; e di conseguenza inducendo da una parte le agenzie di rating a declassare il merito di credito della banca, e dall’altra le ricche aziende della Silicon Valley – non coperte dal fondo di garanzia di “appena” 250.000 dollari a deposito, e quindi terrorizzate di perdere i loro milioni e di non poter pagare dipendenti e fornitori – a precipitarsi in massa a prelevare i loro quattrini… costringendo l’istituto, in un’infernale spirale di azioni e reazioni, a vendere in perdita ancora altre obbligazioni.

    A questo punto si scatenò il panico di un’infernale serie di insolvenze a catena, che dalle banche di media grandezza come SVB minacciava di estendersi anche agli istituti maggiori, prima in USA e poi in Europa.

    Per stroncare sul nascere la gravissima crisi che si profilava, un comunicato congiunto del Tesoro USA e della Federal Reserve annunciò due interventi d’urgenza: in primo luogo il ministro del Tesoro Janet Yellen (ex governatrice della Federal Reserve ai tempi di Obama) dichiarò che il suo ministero del Tesoro (ma dai, diciamolo chiaramente: da dove prende i soldi il ministero del Tesoro…? ovvio, dal solito malcapitato Pantalone contribuente!) avrebbe rimborsato alle aziende clienti di SVB l’intero ammontare dei loro depositi, anche se di decine di milioni di dollari, affinché non dovessero interrompere i pagamenti a dipendenti e fornitori innescando una catena travolgente di insolvenze e fallimenti; e secondariamente che non solo gli azionisti, ma perfino gli obbligazionisti di SVB (il capro espiatorio di turno, perché privo di qualsiasi potere contrattuale ossia ricattatorio) avrebbero perso TUTTO il capitale investito.

    Lo stesso vale per l’altra banca crollata per gli stessi motivi, Signature Bank.

    Purtroppo ora mi mancano il tempo e lo spazio per approfondire l’altro dramma bancario seguito in Europa pochissimo tempo dopo, seppure parzialmente per altri motivi, quello di Credit Suisse… lo vedremo forse un’altra volta.

    Per concludere, il dilemma delle Banche centrali a questo punto è evidente: se, rendendosi conto che l’elefante delle strette monetarie implementate per combattere l’inflazione sta fracassando i delicati cristalli del già malaticcio sistema finanziario, si interrompessero i rialzi del tasso d’interesse, o addirittura se (come si aspettano le Borse, e se fossero deluse potrebbero prenderla male!) si tornasse alla precedente politica accomodante dei tassi bassi, l’inflazione dilagherebbe; e se invece si confermasse l’attuale strategia di rialzi del tasso d’interesse, e di progressivo drenaggio della liquidità irresponsabilmente sparsa a piene mani nel 2020 e 2021 per rianimare l’economia bastonata dalla “pandemia”, è imprevedibile la portata dei disastri nel circuito finanziario e che cosa bisognerebbe fare poi per rimediarvi.

    Questo dilemma, purtroppo, è ancora tristemente attuale e non ho dubbi che Christine Lagarde e James Powell, rispettivamente governatori della BCE e della Federal Reserve, abbiano entrambi le idee notevolmente confuse sul da farsi.

    Francesco D’Alessandro

     

     

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