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    Risale lo spread

    Da qualche tempo si sente parlare spesso della “preoccupante risalita dello spread”.

    Già mi sembra di vedere qualche espressione perplessa tra i lettori: ma che cos’è… questo spread che risale?

    E perché se risale è preoccupante?

    Cercherò di rispondere a queste domande, che – sottolineo – riguardano anche TE che leggendo il titolo sei rimasto perplesso, perché si tratta dei TUOI soldi e se il governo spende bene o male quelli che gli versi con le TUE tasse.

    E purtroppo molti giornalisti, invece di sentire il dovere di spiegare ai loro lettori o ascoltatori gli eventi che riferiscono, o per pigrizia, o perché pensano che tutto sommato è meglio che il pubblico non capisca troppo… si limitano a ripetere pari pari il mantra statunitense e ad impartire la “preoccupante notizia” dell’aumento di questo illustre sconosciuto.

    Ma prima di approfondire perché “lo spread risale” e perché quest’aumento è “preoccupante”, bisogna capire cos’è questo “spread”… e dunque cominciamo dall’inizio.

    L’espressione italiana più comune è “differenziale di rendimento”, ma mi sembra più calzante quella spagnola “prima de riesgo”, ossia “premio al rischio”… ma per chiudere il ragionamento manca un termine di paragone con cui confrontare questi concetti, che ora cercherò di definire.

    Tutti gli Stati del mondo, compresa l’Italia, ogni anno chiedono in prestito miliardi di euro per finanziare i servizi erogati ai loro cittadini: sanità, giustizia, istruzione, ordine pubblico, trasporti e così via.


    Secondo il Ministero dell’economia e delle finanze (per consultare il dato scorrere fino in fondo il sito: https://www.dt.mef.gov.it/it/debito_pubblico/dati_statistici/) al 31 maggio di quest’anno erano in circolazione 2.285 miliardi (!) di euro di titoli pubblici italiani di vario tipo e scadenza.

    In cambio del denaro ricevuto in prestito gli Stati rilasciano agli investitori delle “obbligazioni”, cioè dei certificati rappresentativi dell’ammontare del debito e indicanti la data di restituzione, che a seconda del tipo di emissione può essere distante pochi mesi o molti anni.

    Fino alla scadenza lo Stato paga periodicamente agli investitori un corrispettivo per l’uso del loro denaro (gli “interessi” o le “cedole”), e alla scadenza gli restituisce il loro “capitale”.

    E qual è questo tasso d’interesse pagato dagli Stati agli investitori?

    Non esiste un tasso immutabile, che invece dipende da una quantità di fattori: ad esempio dall’inflazione, cioè dalla perdita del potere d’acquisto del denaro (ne ho parlato nei numeri precedenti di questo giornale), e dalla “rischiosità” dello Stato debitore.

    Infatti, esattamente come le persone fisiche, anche gli Stati debitori non sono tutti uguali: alcuni offrono maggiore certezza di restituirci il denaro che gli prestiamo (ed a questi si può chiedere un interesse minore, perché siamo sicuri di riavere i nostri soldi), e altri invece sono più rischiosi, o perché già molto indebitati o perché politicamente instabili; ed è appunto con gli Stati meno “rischiosi” e con le loro obbligazioni, definite “benchmark”, cioè “termini di paragone”, che prima di investire gli investitori confrontano le obbligazioni degli altri Stati più “discoli”, per valutare se, ritenendole più rischiose, da loro si debba pretendere un tasso d’interesse maggiore di quello chiesto ai Paesi più affidabili.

    E chi decide questo tasso d’interesse …?

    Beh… diciamo il mercato… cioè gli investitori intenzionati a prestare i loro soldi a quello Stato valutano il rischio che corrono prestandoglieli, e lo Stato aspirante debitore considera quale tasso d’interesse può offrire per convincerli a comprare; se si trova un punto d’incontro tra le due valutazioni l’emissione sarà sottoscritta, altrimenti lo Stato emittente dovrà rivedere la sua proposta.

    Le due principali aree monetarie mondiali per il momento sono quelle dell’euro e del dollaro (dico per il momento, perché prima o poi anche lo yuan cinese reclamerà il suo ruolo internazionale), ed i Paesi considerati “benchmark” sono per l’euro la Germania e per il dollaro gli Stati Uniti; ed è con le emissioni decennali di questi due Paesi, denominate rispettivamente Bund e Treasuries,  che si confrontano le emissioni di pari durata degli altri Paesi (in Italia sono i BTP).

    Ora prima di proseguire permettetemi una divagazione: non ho la pretesa di stabilire se tutto ciò sia giusto o ingiusto, o corretto  o sbagliato, né mi interessa emettere giudizi morali: sto solo facendo la fotografia di una situazione, e piacevole o spiacevole che sia, questa è.

    Qualcuno vorrà affermare che lo spread è un imbroglio (anni fa Berlusconi lo ripeteva tutti i giorni), o come dicono altri che c’è un progetto di una qualche organizzazione o governo mirante a favorire alcuni e a distruggere altri; sono opinioni legittime quanto le contrarie, ma personalmente trovo noiose, perché totalmente inconcludenti, queste diatribe che vogliono attribuire a qualche malvagio estraneo la colpa di questo o quel male di questo o quel Paese: anche se così fosse, dopo esserci presi la soddisfazione di puntare il dito accusatorio contro il presunto colpevole di volerci male, cambierebbe qualcosa…?

    O magari invece di puntare dita accusatorie contro chi secondo noi ci odia e incolparlo di tutti i nostri mali (che tra l’altro è un modo anche troppo facile di scaricarsi la coscienza…), non sarebbe meglio riflettere se noi stessi abbiamo qualche responsabilità collettiva, e poi darci da fare per cambiare quello che riteniamo ingiusto…?

    In politica e in economia internazionali, proprio come nella vita delle persone, l’unica via a disposizione di chi pensa di trovarsi in una posizione di debolezza, che permette ai malevoli di nuocergli, è rimboccarsi le maniche per rafforzarla; i piagnistei, ahimè… lasciano totalmente il tempo che trovano ed alla fine della storia sono solo un inutilissimo spreco di tempo ed energie che potrebbero essere meglio impiegati.

    Fatta questa digressione, l’Italia purtroppo non gode di grande reputazione tra gli investitori internazionali, e per convincerli a comprare i suoi BTP deve aggiungere all’interesse offerto dai Bund tedeschi un supplemento, ed è proprio questo differenziale il famoso “spread”: ossia un interesse aggiuntivo, pagato dalle emissioni del Paese B rispetto a quelle del Paese A assunte a riferimento.

    In questo sito spagnolo (molto interessante anche per consultare altri dati economici) chi ne ha voglia potrà divertirsi a spulciare i “premi al rischio” che i diversi Paesi devono pagare in più rispetto ai due emittenti “di riferimento” delle due aree monetarie dell’euro e del dollaro, ossia la Germania e gli Stati Uniti: https://datosmacro.expansion.com/prima-riesgo

    Il premio al rischio, o spread, è espresso in punti base, 100 dei quali corrispondono ad un 1% d’interesse; quindi 175 punti base di spread equivalgono all’1,75% d’interesse supplementare, cosicché, supponendo ad esempio che un Bund decennale tedesco paghi ai suoi investitori l’interesse dell’1% annuo, e che un BTP italiano per convincere gli investitori a comprarlo debba pagare uno spread di 175 punti base in più, il suo tasso d’interesse finale sarebbe del 2,75%.

    Dicevo all’inizio che recentemente si sente parlare spesso della “preoccupante risalita dello spread”.

    Chiarito cos’è lo spread, ora cerchiamo di capire perché è tornato ad aumentare e quali ne sono le conseguenze.

    Per anni, in un contesto di inflazione praticamente inesistente,  i rendimenti dei titoli di Stato europei sono stati negativi, ossia non solo gli acquirenti non percepivano nessun interesse, ma addirittura pagavano loro un interesse allo Stato emittente per avere il “privilegio” di tenere i loro soldi al sicuro nella pancia dello Stato prescelto; ma l’impennata dell’inflazione, innescata prima dalla “pandemia” e poi dal conflitto in Ucraina, ha bruscamente scompaginato questa situazione.

    Lo strumento basilare usato dalle Banche centrali (ad esempio la Federal Reserve negli Stati Uniti e la BCE nell’area monetaria dell’euro) per raffreddare l’inflazione è alzare il tasso d’interesse ufficiale, e questo oggi sta avvenendo in tutti i Paesi del mondo, dato che i rincari dei prezzi sono un fenomeno planetario; e quindi aumentano anche gli interessi pagati dalle emissioni dello Stato italiano, però in misura maggiore rispetto ad altri Paesi dell’Unione europea, perché l’Italia, ritenuta meno affidabile di altri essendo più indebitata e politicamente più instabile, per convincere gli investitori a preferire le sue obbligazioni deve offrirgli un interesse più alto.

    Questa non è certo una novità, ma oggi alcuni fattori aggravano la situazione: il primo è l’interruzione degli acquisti di titoli di Stato (non solo italiani) da parte della Banca centrale europea, annunciata il 10 giugno dalla presidente Lagarde.

    Dal 2015, per sostenere l’asfittica economia dell’UE, la BCE, presieduta allora da Draghi e attualmente da Lagarde, ha praticato il cosiddetto allentamento quantitativo, cioè l’acquisto di obbligazioni pubbliche e private e la conseguente immissione in circolazione di nuova moneta da essa stampata; a questo meccanismo dopo l’avvento della “pandemia” se ne è aggiunto sotto Lagarde un secondo analogo, concepito appositamente (come dice esplicitamente il suo nome) per “contrastare l’emergenza pandemica” (non lo ascolterete mai dai media ufficiali, ma a mio parere proprio questa enorme quantità di denaro immesso in circolazione negli anni scorsi è una delle cause dell’attuale alta inflazione).

    La fine di entrambi i meccanismi, recentemente decisa dalla BCE proprio per non immettere in circolazione altro denaro che getterebbe benzina sul fuoco già divampante dell’inflazione, elimina però il principale acquirente dei BTP italiani, che sostenendone il prezzo con i suoi acquisti ne calmierava il tasso d’interesse; e questo proprio quando l’economia va ancora peggio di prima per un catena di motivi, dalla guerra in Ucraina al rincaro dirompente delle materie prime ed alla stessa esplosiva inflazione.

    E se l’economia va male (l’8 giugno Eurostat ha comunicato che l’Italia è terzultima nella classifica  della ripresa dei PIL dei Paesi dell’eurozona) diminuiscono le entrate tributarie dello Stato, che invece deve (o elettoralmente vuole…) far fronte a interventi sempre più massicci per tappare le falle dei redditi dei cittadini… tutte circostanze che minano la fiducia degli investitori.

    Un secondo motivo è che tra meno di un anno in Italia si terranno le elezioni politiche, il cui imprevedibile esito ha però una certezza: sarà un terremoto dalle conseguenze imponderabili non solo per l’Italia, ma nell’attuale delicatissima situazione continentale probabilmente anche per l’Unione europea.

    I mercati odiano l’incertezza e rispetto ad un esito elettorale aleatorio e probabilmente dirompente considererebbero come il male minore la permanenza di Draghi alla guida di un governissimo-ammucchiata, situazione che però a me ed anche a loro appare improbabile, anche perché, esaurita in qualche modo la missione affidatagli, verosimilmente Draghi decollerà verso qualche incarico internazionale.

    Invece mi sembra molto probabile il successo di uno o più partiti in passato apertamente ostili all’UE e all’euro; ma come generalmente avviene in questi casi, e come dimostra anche la recente esperienza del M5S, una volta arrivati al governo, dove agire è difficile e costa, questo partito o questi partiti verosimilmente ammorbidiranno notevolmente – o addirittura capovolgeranno – le posizioni di quando erano all’opposizione, dove proclamare è facile e gratis; tuttavia anche la remota possibilità di ricevere il rimborso del proprio capitale in una moneta diversa dall’euro (e ampiamente svalutata) è considerata un rischio dai potenziali investitori in obbligazioni italiane, che quindi chiedono di esserne ricompensati da un interesse più alto.

    Dicevo che l’eventuale nuova lira, o come altro si chiamerebbe, sarebbe immediatamente e ampiamente svalutata, perché non solo la sua parità con l’euro (moneta che sintetizza la forza delle economie di vari Paesi, quasi tutti molto più solidi dell’Italia) sarebbe insostenibile di per sé, ma la svalutazione sarebbe uno dei primi provvedimenti di un governo italexit, che per rilanciare le esportazioni tornerebbe alla droga delle “svalutazioni competitive” praticate ogni 3-4 anni negli ultimi decenni del secolo scorso da indistintamente tutti i governi (ma, oggi come allora, ciò renderebbe molto più costose le importazioni delle materie prime ed energetiche necessarie al funzionamento del Paese e delle industrie nazionali, con i conseguenti impatti sull’inflazione).

    Per concludere: salvo specifici interventi anti-spread della BCE, a cui Lagarde ha solo vagamente accennato, do per scontato fino alle elezioni del 2023 (dopo sarà un’altra storia, oggi imprevedibile…) almeno un 2% di spread, se non di più, che lo Stato italiano dovrà pagare agli investitori per convincerli a sottoscrivere le sue emissioni; ma si è calcolato che anche solo questo differenziale di 200 punti base imporrà al bilancio statale, via via che le emissioni in scadenza dovranno essere sostituite, un esborso supplementare circa 6 miliardi di euro all’anno, o di più se lo spread fosse maggiore, con il conseguente appesantimento del famigerato rapporto debito pubblico/prodotto interno lordo. E quali saranno le conseguenze?

    La risposta purtroppo è semplice: questa maggiore spesa per interessi su una massa tanto ingente di titoli di Stato dovrà essere recuperata in qualche modo, e i modi sono sostanzialmente tre, nessuno dei quali esclude gli altri due: aumentare le tasse (già altissime), o ridurre la spesa per i servizi (già in affanno e che comunque sempre più traballeranno), o pagare i debiti dello Stato stampando carta straccia… oooppsss, volevo dire moneta, alimentando così l’inflazione e distruggendo dolosamente il potere d’acquisto e i sudati risparmi  dei cittadini, ma anche riducendo furbescamente il valore reale del debito statale (veramente ci sarebbe un quarto modo, cioè eliminare sprechi e inefficienze, ma la mia memoria mi dice che qualsiasi governo italiano di questo è incapace).

    Tuttavia per il momento l’appartenenza all’euro toglie allo Stato italiano il potere di decidere di stampare moneta, facoltà che appartiene alla BCE; in questo giochino delle tre carte, in cui lo Stato creava inflazione per diminuire il suo debito reale scaricandone l’onere sui redditi e sui risparmi dei cittadini, dagli anni settanta del secolo scorso fino all’avvento dell’euro tutti i governi italiani di tutti i colori si sono dimostrati abilissimi manipolatori… ma ora sembra che anche l’UE e la BCE ne abbiano imparato il malefico trucco.

    Francesco D’Alessandro

     

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