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    Il mito di Cuba – 1° parte

    Gli appassionati di quell’astratto universo di tinta variabile dal rosa al rosso acceso, perennemente occupati a sognare “l’isola che non c’è”, per una loro insopprimibile necessità psicologica hanno, e sempre avranno, il desiderio intenso di crearsi un mito che li rassicuri che sì, come dice un loro usurato mantra… “un altro mondo è possibile”.

    E naturalmente per sostenere la fede dei credenti nella certezza di attuare prima o poi il Paradiso in terra è indispensabile un paradigma, se non già realizzato almeno in cammino verso la realizzazione, da additare a modello ai fedeli e da opporre agli scettici.

    Qualche decennio fa il mito era la Cina dei tempi eroici di Mao Zedong e della sua Lunga Marcia, della Rivoluzione Culturale in cui gli studenti iper-rivoluzionari facevano sfilare in cortei della vergogna gli accusati di revisionismo, costretti a indossare i copricapi a cono dell’ignominia, come ricorda una sequenza del film “L’ultimo Imperatore”. Quel mito era riassunto nell’ossimoro intenzionale “La Cina è vicina”, che come spesso accade quando in Italia si parla senza cognizione di causa di cose lontane, era una distorsione maldigerita e semplicistica di concetti e situazioni molto più articolati e complessi provenienti dall’estero.

    La pragmatica Cina odierna, oggi imperialista e aspirante potenza egemone mondiale, non ha più i requisiti per adempiere il ruolo di mito della sinistra, in cui da qualche tempo è stata sostituita dall’amatissima Cuba, perfettamente corrispondente all’immaginario più affascinante dei sognatori più incalliti: un piccolo e gioioso popolo, geograficamente vicino al malvagio colosso massima espressione dell’imperialismo capitalista, ma che eppure gli resiste… che esporta nel mondo una musica accattivante e trascinante come la salsa, fusione perfetta di culture diverse… un’isola felice dove le razze non esistono, ma esistono solo sfumature di colore dell’epidermide, che però non significano assolutamente nulla più di questo… dove le mulatte sono tutte bellissime (ascoltando la celebre canzone dei Jarabe de Palo sembra quasi di vederla, quella “flaca” così sensualmente agognata!), gli uomini sono tutti amanti impetuosi e perfino le prostitute – dice la leggenda – sono acculturate… dove le spiagge, in cui trascorrere lieti momenti con una recente e piacevole amicizia cubana, sono splendide e abbacinanti sotto un caldo sole … dove i bambini crescono felici anche senza il superfluo e abbondano i medici bravissimi e altruisti… dove un eroico rivoluzionario, poi morto in combattimento per la libertà dei popoli latinoamericani sui monti boliviani, ed esaltato come “Comandante” in una celeberrima ode cantata e ricantata da uno stuolo di interpreti, è diventato – con tanto di basco e folta barba – un’icona pop stampata in tutto il mondo su miriadi di magliette immancabilmente rosse… dove se c’è un problema qualsiasi, la colpa è invariabilmente del malvagio embargo yanqui… contro il cui imperialismo però il popolo cubano opporrà sempre un bastione inespugnabile… in sintesi un bellissimo, luminoso, animato ed emozionante film a lieto fine, la cui colonna sonora sono per le masse i Buena Vista Social Club e per gli intenditori più raffinati l’aedo popolare della rivoluzione Carlos Puebla.

    Questo colorato arazzo di rassicuranti luoghi comuni è stato bruscamente lacerato qualche settimana fa dalle manifestazioni di piazza che dalla cittadina di San Antonio de los Baños, a 30 km da La Habana, si sono estese a macchia d’olio in tutta l’isola con lo slogan “Patria y vida”, in opposizione al motto “Patria y muerte” ideato dall’ex presidente Fidel Castro e perfino stampato sulle banconote cubane.

    I manifestanti protestavano per la penuria di generi alimentari e di farmaci, per la proliferazione di negozi in cui i prodotti più pregiati sono acquistabili solo pagando in valuta estera, per le frequenti interruzioni elettriche e in generale per la grave crisi economica in cui il Paese è stato precipitato dalla “pandemia” e dal conseguente crollo del turismo dall’estero.


    Ma come sempre, per comprendere il presente è opportuna una rivisitazione del passato… dunque cominciamo dall’inizio.

    Cristoforo Colombo scopri l’isola nell’ottobre nel 1492 durante il viaggio verso il continente americano e ne rivendicò il possesso per la Spagna.

    La colonizzazione iniziò a partire dal 1500 e proseguì progressivamente nei tre secoli seguenti fino alla seconda metà del 1800, quando – con un certo ritardo rispetto al continente sudamericano – l’ansia di indipendenza dalla Spagna si trasformò in lotta armata in due rivolte successive, la “Guerra dei 10 anni” (1868-78) e la “Piccola guerra” (1879-80), entrambe risoltesi con la sconfitta dei secessionisti.

    Nel 1895 iniziò la terza insurrezione, denominata la “Guerra necessaria” dal suo ideologo, il poeta, giornalista e scrittore José Martí, ancora oggi considerato dai cubani il padre della patria, ucciso a maggio di quell’anno in un combattimento contro le truppe spagnole.

    Nel 1898 la guerra volgeva al peggio per gli spagnoli, ormai asserragliati in pochi centri urbani; a marzo l’ambasciatore statunitense a Madrid, Woodford, ne scrisse al presidente McKinley, avvertendolo che se gli Stati Uniti volevano ricavare qualche vantaggio dal conflitto, dovevano intervenirvi prima che si concludesse.

    Ad aprile, assumendo come pretesto l’esplosione di una loro nave nella baia di La Habana, gli Stati Uniti dichiararono guerra alla Spagna, che rovinosamente sconfitta in appena quattro mesi, perse in quella guerra tutto ciò che ancora le restava del suo secolare ex impero coloniale: Guam e Portorico furono cedute come risarcimento dei danni di guerra agli Stati Uniti, che nello stesso trattato di pace comprarono per 20 milioni di dollari dal governo spagnolo anche le Filippine.

    Nel 1901 l’Assemblea costituente cubana votò la Costituzione dell’isola ancora occupata dagli statunitensi, che per sgombrare pretesero che vi fosse inserito il cosiddetto “Emendamento Platt” (dal nome del loro senatore che ne fu l’ideatore), che in pratica trasformava Cuba in un protettorato imponendole pesanti limitazioni della sovranità e la cessione di un territorio che tuttora ospita la base militare statunitense di Guantanamo.

    Questa pesante ingerenza conteneva in sé il germe degli sviluppi futuri: il susseguirsi per alcuni decenni di governi autoritari e corrotti, fantocci dell’ingombrante vicino statunitense, alimentò il risentimento dei cubani, a cui sembrava che il dominio coloniale della Spagna non fosse stato abolito, ma solo sostituito da un altro.

    La mattina della domenica 26 luglio 1953, approfittando della confusione per la celebrazione del carnevale, un centinaio di insorti guidati dall’avvocato venticinquenne Fidel Castro assaltarono la Caserma Moncada nella capitale La Habana, ma l’immediato allarme della guarnigione e il rapido intervento dell’esercito dell’autocrate Fulgencio Batista repressero in poche ore la rivolta, durante la quale fu uccisa la maggior parte degli assalitori.

    Castro e i pochi superstiti fuggirono sui monti della Sierra Maestra, dove meno di una settimana dopo furono catturati; processati e condannati a 15 anni, furono amnistiati e liberati nel 1955.

    Fidel Castro e il fratello Raúl fuggirono in Messico, dove conobbero un altro futuro protagonista della rivoluzione cubana, l’argentino Ernesto Guevara.

    I cospiratori acquistarono negli Stati Uniti per 17.000 dollari il battello Granma, sul quale il 25 novembre 1956 salparono in 81 dal porto messicano di Tuxpan verso Cuba, dove sbarcarono il 2 dicembre; immediatamente decimati nel primo scontro con l’esercito, i superstiti si rifugiarono ancora sui monti della Sierra Maestra, dove arruolando sul posto nuovi volontari arrivarono presto a contare 800 effettivi, con i quali iniziarono la tenace guerriglia contro i 70.000 soldati dell’esercito di Batista, tuttavia continuamente indebolito da diserzioni e rese agli insorti.

    All’inizio di maggio 1958 Fulgencio Batista ordinò un’offensiva generale nella Sierra Maestra per annientare i ribelli, che invece, inanellando una vittoria dopo l’altra, costrinsero alla ritirata l’esercito inseguendolo verso la capitale La Habana.

    Alla fine di dicembre 1958 il tracollo del regime di Batista appariva inevitabile: il 28 una colonna comandata da Guevara prese d’assalto la città di Santa Clara, perno strategico al centro dell’isola e ultimo ostacolo prima di La Habana.

    Il 31 dicembre i rivoltosi infersero a Batista la spallata finale facendo deragliare e catturando il treno blindato inviato a difesa della città; la precipitosa fuga di Batista a Santo Domingo assieme al presidente Andrés Rivero Agüero lasciò il Paese allo sbando nelle mani del generale Eulogio Cantillo, con cui Fidel Castro concordò la formazione di una giunta militare guidata dal magistrato Orlando Piedra.

    L’enorme disparità numerica delle forze in campo fa riflettere che l’impresa non sarebbe riuscita senza l’odio popolare contro il governo corrotto e screditato dell’ex sergente Fulgencio Batista e il risentimento contro la mano pesante degli Stati Uniti nei loro rapporti con Cuba.

    All’alba del 1° gennaio 1959 le colonne di Ernesto Guevara e di Camilo Cienfuegos entrarono a La Habana e nello stesso giorno Fidel Castro si impossessò di Santiago de Cuba, dichiarandola capitale provvisoria e insediandovi come presidente della repubblica il magistrato Manuel Urrutia Lleó, che il 5 gennaio gli presentò il governo composto da quindici ministri e presieduto dal liberale José Miró Cardona.

    Da notare che il nuovo potere cubano fu subito riconosciuto dagli Stati Uniti, ma la sua iniziale patina moderata assunse molto presto un’altra coloritura: il 16 febbraio Fidel Castro si autonominò comandante in capo delle Forze armate e primo ministro esautorando José Miró, rapidamente allontanato dalla scena come ambasciatore in Spagna. Una delle prime iniziative del nuovo governo furono i tribunali rivoluzionari, instaurati dalla Commissione di epurazione sotto la direzione di Ernesto Guevara: un migliaio di esponenti del passato regime e di nuovi oppositori furono arrestati e giudicati in processi sommari, in 550 dei quali il verdetto fu la fucilazione immediatamente eseguita.

    L’11 dicembre 1964 lo stesso Guevara dichiarò in un discorso dinanzi all’assemblea dell’ONU: “Fucilazioni? Sì, abbiamo fucilato, fuciliamo e continueremo a farlo fino a quando sarà necessario.

    La nostra lotta è una lotta a morte.

    Sappiamo quale sarebbe la conseguenza di una battaglia persa e anche questi vermi devono sapere qual è la  conseguenza della loro sconfitta di oggi a Cuba.”

    Quando il presidente Urrutia manifestò il suo dissenso per questo bagno di sangue, Fidel Castro si dimise platealmente da primo ministro appellandosi al popolo, che con grandi manifestazioni di piazza lo richiamò, costringendo Urrutia a dimettersi.

    La legge di riforma agraria firmata a maggio 1959 da Fidel Castro avviò una serie di nazionalizzazioni ed espropri di industrie statunitensi e di altri Paesi, mentre i proprietari cubani delle piantagioni e degli zuccherifici e parte della classe media abbandonavano l’isola rifugiandosi negli Stati Uniti.

    Del prosieguo delle vicende di Cuba, del suo definitivo passaggio nell’orbita dell’Unione Sovietica e della successiva “crisi dei missili”, che fece sfiorare al mondo la guerra atomica tra USA e URSS, parleremo nella seconda parte, in cui tenterò anche un’analisi della situazione attuale e dei suoi possibili sviluppi.

    Francesco D’Alessandro

     

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