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    Afghanistan: il cerchio si chiude? – 1a parte

    Alla fine di aprile il presidente Biden ha confermato che l’11 settembre 2021 sarà ultimato il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan, già annunciato per gennaio dal suo predecessore Trump e poi rinviato di qualche mese.

    La data scelta è un evidente richiamo all’11 settembre 2001, quando l’attacco condotto in territorio statunitense da 19 terroristi a bordo di quattro aerei dirottati preluse all’intervento militare americano contro il regime teocratico dei Taliban in Afghanistan… allusione che mi pare poco azzeccata, poiché questo ritiro segna l’ennesima sconfitta militare degli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale a oggi.

    Ma per spiegare il riferimento del titolo a un “cerchio che si chiude” cominciamo dall’inizio, cioè dagli anni ’70-80 del secolo scorso, quando le truppe straniere in lotta contro i Taliban in Afghanistan non erano occidentali, ma era l’Armata Rossa dell’Unione Sovietica.

    In questa prima parte rievocherò quell’invasione e nella seconda, che seguirà il mese prossimo, ricorderò gli eventi successivi, dalla dittatura religiosa instaurata dai Taliban dopo l’abbandono sovietico all’intervento militare statunitense nell’ottobre del 2001 e oggi all’imminente loro ritiro assieme ai Paesi alleati della NATO… una decisione le cui conseguenze al momento sono imprevedibili.

    Ma inquadriamo prima di tutto il contesto: l’Afghanistan, grande un po’ più del doppio dell’Italia, all’epoca confinava per più di 2.300 km con l’ex Unione Sovietica (oggi quel confine è spezzettato tra alcuni Stati nati dalla dissoluzione dell’URSS), per quasi 2.200 con il Pakistan, per più di 800 con l’Iran e per 75 con la Cina. Allora la popolazione afghana oscillava intorno ai 16-17 milioni (oggi si è più che raddoppiata sfiorando i 40), per l’80% residenti in aree rurali e per l’85% dediti a un’agricoltura e pastorizia arretrate; appena il 3,50% lavorava nell’industria e il 90% era analfabeta.

    Un lento tentativo di modernizzazione iniziò nel 1964 con la costituzione e il suffragio universale concessi dal re Mohammed Zahir Shah, deposto nel 1973 durante un viaggio all’estero da un colpo di Stato guidato dall’ex primo ministro Mohammed Daud Khan, che instaurò la repubblica.

    Daud si impegnò a proseguire la modernizzazione iniziata da Zahir, ostacolato però dalla struttura della società afghana, semifeudale e frazionata in etnie tra loro avverse, fattori già allora all’origine dell’opposizione armata al governo, incoraggiata dal confinante Pakistan, che temeva l’attrazione esercitata dall’etnia pashtun dell’Afghanistan sui pashtun pakistani.


    Il 27 aprile 1978 un colpo di Stato del partito comunista afghano PDPA, sostenuto da ufficiali dell’esercito addestrati in URSS, rovesciò e uccise Daud e proclamò la Repubblica Democratica dell’Afghanistan, il cui governo accelerò le riforme ispirandosi all’ideologia comunista e firmando un trattato di amicizia con l’URSS, di cui chiese il sostegno.

    Questa svolta era però osteggiata dalle popolazioni rurali, analfabete e fedelissime ai precetti islamici: alla fine del 1978 già operavano sui monti bande di guerriglieri autodenominatisi mujaheddin, ossia “combattenti della guerra santa”.

    Il governo divenne così sempre più dipendente dal sostegno militare sovietico, i cui consiglieri aumentarono da 400 a maggio 1979 a 4.000 alla fine dell’anno; ad aprile 1979 il governo di Kabul chiese e ottenne l’invio di elicotteri d’attacco dell’Armata Rossa; a giugno carri armati e blindati sovietici già presidiavano l’aeroporto e le sedi governative della capitale, ed a luglio il governo chiese all’URSS – che per il momento prese tempo – l’invio di due divisioni motorizzate e di una aviotrasportata.

    Ma anche i guerriglieri ricevevano aiuti, principalmente dal Pakistan e dagli USA, che puntavano ad aprire un fronte antisovietico che logorasse militarmente e politicamente l’URSS, com’era successo agli Stati Uniti in Vietnam.

    A settembre 1979 un altro colpo di stato della fazione comunista oltranzista Khalq (“Popolo”) portò al potere Hafizullah Amin, che inasprì la repressione eliminando fisicamente oltre 10.000 oppositori o ritenuti tali, in gran parte preti e notabili di villaggi ma anche membri della nascente media borghesia… e com’era inevitabile la sanguinosa repressione infuse nuovo vigore alla guerriglia.

    A Mosca allora si cominciò a temere seriamente una rivoluzione islamica sull’onda di quella recentissima in Iran, con il rischio non solo di perdere rapidamente e definitivamente l’influenza pazientemente costruita in Afghanistan, ma anche di un’estensione del contagio islamico alle confinanti popolazioni musulmane dell’URSS.

    Il ministro della difesa Ustinov e i capi militari chiesero con forza al segretario del PC Brezhnev di autorizzare un intervento per “riportare l’ordine” e nel contempo migliorare l’immagine dell’URSS agli occhi degli afghani instaurando un governo meno sanguinario.

    I sovietici si mossero su due fronti: quello politico fu affidato al generale del KGB Viktor Paputin, incaricato di convincere Amin a cedere pacificamente il comando al moderato Karmal scelto dai sovietici, mentre a pianificare l’eventuale intervento militare fu designato il generale Ivan Pavlovskij, che aveva guidato con successo l’invasione della Cecoslovacchia nel 1968.

    Fallita la missione politica di Paputin, il Politburo autorizzò l’Armata Rossa a mettere in moto la macchina dell’invasione, affidando al generale Jurij Tucharinov il comando di due divisioni motorizzate e di una aviotrasportata più alcuni reparti ausiliari, per un totale di 52.000 soldati.

    Il piano prevedeva l’immediata paralizzazione delle forze armate afghane da parte dei consiglieri militari sovietici, già inseriti nei ruoli chiave, a cui sarebbe seguita l’invasione vera e propria per occupare i centri di comando e le linee di comunicazione, deporre Amin, stabilizzare il Paese e potenziare l’esercito afghano, a cui sarebbe stata affidata la repressione della guerriglia talebana permettendo al nerbo dell’esercito sovietico di ritirarsi entro tre anni.

    La notte del 24 dicembre 1979 l’Armata Rossa avviò l’operazione Shtorm 333 attraversando il confine del fiume Amu Darya, mentre i paracadutisti della 103ª Divisione aviotrasportata, che già presidiavano l’aeroporto di Bagram, se ne impossessarono praticamente senza combattere; altre truppe aviotrasportate seguirono poco dopo con un ponte aereo dalla base uzbeka di Fergana.

    Intanto truppe speciali sovietiche camuffate con uniformi afghane occupavano i ministeri, i comandi militari e i nodi di comunicazione, mentre una colonna meccanizzata di paracadutisti si dirigeva verso l’edificio dove Amin cercava di organizzare la resistenza, rapidamente sopraffatta dai sovietici e conclusa dalla morte del dittatore afghano, sostituito dal presidente fantoccio Karmal portato immediatamente in volo da Mosca per formare il nuovo governo.

    Gli Stati Uniti capeggiarono da subito l’opposizione internazionale all’invasione imponendo una serie di sanzioni contro l’URSS e promuovendo il boicottaggio della XXII Olimpiade prevista a Mosca nell’estate del 1980, a cui si unirono molti Paesi asiatici, europei e sudamericani e quasi tutti i Paesi arabi.

    Una risoluzione di condanna fu approvata a maggioranza schiacciante dall’Assemblea Generale dell’ONU, ma il diritto di veto dell’URSS nel Consiglio di sicurezza impedì qualsiasi provvedimento concreto.

    Nei piani sovietici all’esercito afghano era destinato il ruolo centrale nella lotta contro i mujaheddin, ma le numerosissime diserzioni ne ridussero gli effettivi, scesi nel 1980 a 20.000 dai 110.000 del 1978; addirittura si giunse all’assurdo che per timore di defezioni gli aerei militari afghani in missione dovevano avere almeno un membro sovietico dell’equipaggio ed erano scortati da aerei sovietici.

    Sul fronte opposto dei mujaheddin l’invasione fu il collante che unificò la numerose fazioni estremiste e moderate sotto la comune bandiera ideologica e religiosa della lotta all’occupante.

    Sul piano internazionale, dopo l’elezione alla presidenza degli USA, Ronald Reagan intensificò l’opposizione all’invasione già avviata dal suo predecessore Carter, ma non più con una strategia di logoramento dei sovietici, bensì con interventi attivi a sostegno dei mujaheddin, dall’invio di consiglieri militari a forniture di armi e di denaro e ad operazioni segrete della CIA, di cui il Pakistan divenne la principale base operativa con la collaborazione del governo locale.

    Negli ultimi anni di guerra i mujaheddin ebbero a disposizione anche i micidiali missili antiaereo statunitensi Stinger, che diminuirono grandemente l’efficacia dell’aviazione e degli elicotteri sovietici, costringendoli a perdere di precisione salendo di quota ed a non spingersi in profondità in territorio nemico.

    La Cina, allora in forte contrasto con l’URSS per questioni di confine, sostenne i guerriglieri con consegne di armi in cambio dell’impegno a non immischiarsi nella controversia del governo cinese con gli uiguri islamici dello Xinjiang; l’Iran fornì armi e rifugio ai guerriglieri in fuga dai rastrellamenti sovietici; i mujaheddin furono addestrati anche da agenti britannici; e infine un ruolo di primo piano fu svolto dall’Arabia Saudita, nel cui ampio finanziamento dei mujaheddin svolse un ruolo di primo piano il ricchissimo Osama bin Laden, diventato poi acerrimo nemico degli Stati Uniti e ucciso nel 2011 da un’operazione di truppe speciali americane.

    L’intervento sovietico in Afghanistan si articolò nel tempo in varie fasi concettualmente e operativamente diverse: al tentativo fallito di controllo generale del territorio, poi ridimensionato in una strategia di occupazione delle città e delle vie di comunicazione abbandonando le campagne, fecero seguito gli arroccamenti dei guerriglieri sulle montagne difficilmente accessibili alle truppe sovietiche, addestrate ed equipaggiate per una guerra convenzionale; i loro rastrellamenti riportavano effimeri successi, ma non riuscendo a occupare permanentemente il territorio, i guerriglieri vi facevano subito ritorno quando i sovietici si ritiravano nelle basi fortificate.

    Inizialmente il contingente sovietico era composto da riservisti delle repubbliche asiatiche, supponendo che gli afghani avrebbero accettato meno ostilmente la presenza di correligionari, ma questi soldati, riluttanti a combattere contro altri musulmani, dopo qualche anno furono sostituiti da militari di leva originari dell’intera l’URSS; i quali però, data l’impopolarità della guerra in patria, restavano in Afghanistan in media solo un anno, quindi per un periodo insufficiente per un addestramento efficace.

    La svolta fu determinata dai cambiamenti politici in URSS e dalla conseguente elezione di Gorbaciov a segretario del PC, che indussero un riesame critico dell’intervento militare anche considerandone il costo umano: secondo varie stime l’esercito sovietico subì da 15.000 a 25.000 morti, mentre pesantissime – addirittura stimate da alcuni a un paio di milioni – furono le perdite tra la popolazione civile afghana.

    Ma della ritirata sovietica, dell’instaurazione del regime teocratico dei Taliban, dell’attentato del 2001 contro le Twin Towers di New York e del successivo intervento statunitense fino all’abbandono annunciato da Biden parlerò nella seconda parte, in cui tenterò anche un’analisi delle conseguenze di questa decisione.

    Francesco D’Alessandro

     

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