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    La seconda spina nel fianco di Pechino: dopo Hong Kong, Taiwan

    Il mese scorso abbiamo parlato del primo aculeo nel fianco della Repubblica Popolare Cinese (RPC), la Cina comunista): Hong Kong, il cui sogno di autonomia o addirittura di indipendenza inevitabilmente è diventato una pedina nella più ampia scacchiera dello scontro fra Cina e USA per l’egemonia planetaria.

    Ma la RPC ha anche un’altra spina nel fianco, ben più affilata: la Repubblica di Cina (RdC, comunemente nota come Taiwan), “l’altra Cina” democratica, pluralista e capitalista, che naturalmente Pechino vede come il fumo negli occhi.

    Ma, come sempre, per capire il presente è opportuno dare uno sguardo al passato.

    Il movimento nazionalista cinese (Kuomintang o KMT), nato nei primi anni del 1900 con il concorso di più partiti di destra e di sinistra ideologicamente avversari, era finalizzato principalmente a rovesciare la dinastia imperiale Qing, considerata corrotta e asservita agli stranieri.

    Verso la metà degli anni 1920 si affermò come suo leader Ciang Kai-shek, inizialmente sostenuto dalla neonata Unione Sovietica, che comprensibilmente mirava a instaurare in Cina un regime comunista alleato.

    Presto però l’anticomunista Ciang Kai-shek entrò in rotta di collisione con l’allora capo della fazione di sinistra del KMT, Wang Jing-wei, poi diventato un collaborazionista dei giapponesi: iniziò così la guerra civile cinese, rapidamente vinta dalla fazione nazionalista di Ciang Kai-shek, che come segno di rottura col passato trasferì la capitale da Pechino a Nanchino.

    Intanto il Giappone intensificava i tentativi di espandere la sua influenza in Cina, occupando la Manciuria nel 1931. Nel 1937 iniziò la seconda guerra sino-giapponese, che pochi anni dopo divenne uno dei teatri del più ampio scontro tra Giappone, Stati Uniti e Unione Sovietica durante il secondo conflitto mondiale. In questo periodo il partito comunista cinese (PCC) si riorganizzò conducendo la guerriglia contro i giapponesi e, secondo alcune accuse, lasciando opportunisticamente che questi ultimi decimassero la fazione nazionalista del KMT, per poterla poi combattere meglio a guerra finita.

    Nel 1945, dopo la resa del Giappone, l’URSS occupò la Manciuria usandola come base per la riorganizzazione del PCC.


    L’anno dopo scoppiò lo scontro finale per il dominio della Cina tra il KMT e il PCC, conclusasi nel 1949 – nonostante il sostegno politico e logistico statunitense – con la sconfitta del nazionalisti, due milioni dei quali tra militari e fuggiaschi si rifugiarono a Taiwan, dove fondarono la Repubblica di Cina tuttora esistente.

    Il 1° ottobre 1949 Mao Zedong costituì la RPC e l’assalto dei comunisti all’isola sembrava imminente, ma l’invasione nordcoreana della Corea del Sud con il sostegno cinese convinse gli statunitensi della necessità di non abbandonare l’intera area a Pechino, e per impedire alla RPC la conquista di Taiwan il presidente Truman ordinò alla sua 7° Flotta di presidiare lo stretto di mare che separa l’isola dal continente.

    La RdC di Taiwan mantenne per un paio di decenni il riconoscimento internazionale come governo legittimo dell’intera Cina, ma gradualmente la crescente influenza della Cina comunista spostò verso quest’ultima la stragrande maggioranza dei riconoscimenti diplomatici e nel 1971 le fece guadagnare il seggio spettante alla Cina nell’assemblea dell’ONU, che espulse Taiwan.

    Si creò così una situazione paradossale: gli USA sostenevano – e ancora sostengono – politicamente e militarmente Taiwan, ma dal 1979 riconoscono diplomaticamente la RPC, che se Taiwan non godesse del loro appoggio farebbe dell’isola ribelle un solo boccone.

    Da allora entrambi gli Stati cinesi sostengono di essere l’unico governo legittimo di tutta la Cina.

    Nel 2000 fu eletto presidente di Taiwan il capo del Partito Progressista Democratico (PPD), Chen Shui-bian (che fu anche il primo presidente non proveniente dal partito Kuomintang), sostenitore della proposta di redigere una nuova costituzione in cui si affermasse l’indipendenza della RdC dalla RPC, che reagì promulgando nel 2005 una legge che legittima esplicitamente l’azione militare contro Taiwan se la RdC formalizzasse l’indipendenza; d’altra parte gli Stati Uniti sono impegnati nella difesa di Taiwan non solo formalmente ma anche dalla convenienza strategica, politica e militare, tanto maggiore oggi proprio per la competizione con la RPC per la supremazia planetaria.

    Si è creato così un complesso intreccio di situazioni: se da una parte con il tipico pragmatismo asiatico le due Cine hanno stretto informalmente intensi rapporti economici, dall’altra il governo di Taipei è fermamente deciso a respingere qualsiasi pretesa di Pechino che restringa la sua autonomia politica.

    Taiwan è una delle cosiddette “tigri asiatiche” ad economia fortemente avanzata e vanta aziende informatiche di primo piano a livello mondiale (tra cui le note Acer e Asus), ma l’impetuoso sviluppo economico della Cina comunista e la sua dimensione (superiorità di popolazione di quasi 60 a 1) allarmano Taiwan, che nonostante l’ombrello statunitense teme che prima o poi lo strapotere del colosso oltre lo stretto lo induca o ad un’invasione diretta o a tentare lo strangolamento economico con il blocco marittimo, che sarebbe letale per Taiwan, che vive di esportazioni e soprattutto non è autosufficiente alimentarmente.

    Un elemento da non trascurare è che assieme a Stati Uniti, Russia (erede politico dell’Unione Sovietica), Regno Unito e Francia la RPC è uno dei 5 membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU, che usciti vincitori dalla seconda guerra mondiale (oltre 75 anni fa!) vi esercitano il diritto di veto su qualsiasi risoluzione… un peso chiaramente anacronistico e ingiustificato, attribuito dall’elefantiaco organismo internazionale (anch’esso per molti aspetti ormai anacronistico) ad alcuni Paesi rispetto ad altri.

    Attualmente la politica interna taiwanese si articola in due schieramenti: la Coalizione Azzurra, guidata dal KMT, non sostiene la dichiarazione d’indipendenza, mantenendo come obiettivo ideale la riunificazione con la Cina continentale, naturalmente non sotto l’attuale regime comunista bensì in un sistema parlamentare e capitalista; invece la Coalizione Verde, guidata dal Partito Progressista Democratico, si propone come obiettivo ideale esplicito l’indipendenza formale, ma accetta di mantenere lo statu quo, ossia di semplice esistenza come entità autogovernata, nella consapevolezza che la RPC potrebbe considerare la dichiarazione d’indipendenza una provocazione tanto grave da convincerla a passare immediatamente all’azione militare trascurando ogni altra considerazione, compreso lo scontro politico o addirittura bellico con gli Stati Uniti… che sicuramente, impegnati come sono su molti altri fronti, non ne hanno nessuna voglia e farebbero di tutto, se ce ne fosse bisogno, per convincere Taipei a desistere da strappi in avanti.

    In pratica quindi tutto si regge su uno di quegli strani grovigli di situazioni provvisorie che sembrano permanenti… fino a quando una scossa qualsiasi scuote un tassello tra i tanti che tengono in piedi l’architettura, l’equilibrio si rompe e il castello di carte crolla rovinosamente.

    Da notare che queste diverse posizioni dei due schieramenti comportano una differenza ideologica fondamentale: mentre la Coalizione Azzurra si ritiene ancora il governo legittimo di tutta la Cina, e quindi punta idealmente alla riunificazione, la Coalizione Verde, proprio perché indipendentista, vi ha rinunciato e considera Taiwan uno Stato definitivamente separato dalla RPC.

    Come notavo il mese scorso, Hong Kong e Taiwan sono le due acuminate spine nel fianco di Pechino, proprio perché non sono nemici esterni e culturalmente alieni, ma propongono al mondo, ed anche al dissenso interno della stessa RPC (che sicuramente esiste, anche se costretto al silenzio), il modello di una Cina “diversa”, politicamente democratica, socialmente pluralista ed economicamente capitalista.

    Esprimevo il mese scorso il timore che nonostante l’interessato sostegno statunitense alle proteste dei dissidenti, il destino di Hong Kong purtroppo sia segnato, non solo perché in ogni caso secondo gli accordi internazionali nel 2047 l’ex colonia britannica dovrà essere completamente riassorbita nella RPC, ma anche perché a meno di tre decenni da quella data la Cina comunista vorrà anestetizzare con una transizione graduale il trauma di un capovolgimento totale del sistema politico ed economico.

    In questo periodo di malessere dell’economia, che potrebbe suscitare malcontenti interni, la RPC non vorrà trovarsi a combattere su troppi fronti e con il supporto “giuridico” della “legge sulla sicurezza”, di cui parlavo il mese scorso ed entrata precipitosamente in vigore lo scorso 1° luglio (anniversario della riconsegna della città dal Regno Unito alla Cina nel 1997), silenziosamente e un po’ alla volta i dissidenti di Hong Kong saranno imbavagliati o peggio e la città sarà “normalizzata”, dopodiché la RPC potrà affrontare il problema ben più complesso di Taiwan.

    Non c’è dubbio che se e quando la RPC ritenesse di poterlo fare senza rischi o con un rischio calcolato, anche il destino di Taiwan – la cui sola esistenza la Cina considera una grave provocazione – sarebbe segnato, perché dal 2005 esiste nella RPC la già nominata legge antisecessione, che esplicitamente autorizza il ricorso alle armi per sottomettere Taiwan se si verificasse una di queste tre circostanze: a) un evento che determini la “separazione” di Taiwan dalla Cina “a qualsiasi titolo”, b) un evento che “potrebbe” determinare la “separazione” di Taiwan dalla Cina, o c) un evento che “renda impossibile la riunificazione pacifica”.

    Come si vede sono formulazioni ambigue, che lasciano spazio ad ampie interpretazioni in qualsiasi momento. In sostanza, i nodi della questione mi sembrano sostanzialmente due, comunque intrecciati fra loro: a) la permanenza dell’ombrello politico e militare statunitense, seppure nel già citato paradosso per cui gli USA non riconoscono diplomaticamente il Paese loro protetto e invece hanno rapporti diplomatici con chi vorrebbe invaderlo; b) la modernizzazione delle forze armate cinesi, che sebbene numericamente molto superiori non sono ancora all’altezza dei moderni armamenti venduti dagli USA a Taiwan, e quindi prima di vincere per superiorità numerica – sempre che gli statunitensi non intervengano più o meno direttamente – subirebbero gravi perdite.

    Ma il piano egemonico planetario di Pechino passa anzitutto per la supremazia in Asia, e Taiwan verosimilmente è il primo ostacolo da rimuovere: se un giorno gli USA manifestamente non fossero più in grado di difenderla, l’equilibrio potrebbe rompersi rapidamente.

    Francesco D’Alessandro

     

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