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    Guerra segreta in Medio Oriente

    La realtà spesso supera i più fantastici film d’azione.

    Il 27 novembre scorso, nei pressi della località iraniana di Absard, un commando di provenienza ignota ha teso un agguato e ucciso durante uno spostamento in automobile l’alto ufficiale della Guardia Rivoluzionaria e “padre” dell’atomica iraniana Mohsen Fakhrizadeh.

    Esistono versioni diverse dell’imboscata, ma tutte concordano sulla sua cronometrica preparazione ed esecuzione, che sicuramente hanno richiesto la partecipazione di decine di persone perfettamente addestrate e coordinate e l’uso intensivo di sofisticati dispositivi telecomandati.

    Ma l’uccisione di Fakhrizadeh è stato solo l’ultimo di una serie di “incidenti” avvenuti quest’anno in vari siti strategici iraniani: il 2 luglio 2020 un’esplosione nella fabbrica di Natanz dove si montano le centrifughe nucleari, il 4 luglio un incendio nella centrale elettrica di Ahvaz e una fuga di cloro nell’installazione petrolchimica di Karoun, il 7 luglio un’esplosione nell’impianto di produzione di ossigeno di Baghershahr e il 9 luglio una serie di esplosioni in più luoghi imprecisati a ovest della capitale Teheran.

     

    Di tutti questi eventi precedenti la morte di Fakhrizadeh le autorità iraniane non hanno dato spiegazioni, ma dopo quest’attentato una cosa appare evidente: in Iran agisce un’efficiente rete occulta di sabotatori addestrati all’uso di tecnologie avanzatissime, che la polizia del regime teocratico non riesce a neutralizzare.

    Un’altra considerazione è che tutte queste attività rientrano in una strategia bellica nuova, che non ricorre al dispiegamento di eserciti bensì all’eliminazione mirata di importanti dirigenti di organismi militari, politici o scientifici: ricordiamo il drone statunitense che il 3 gennaio 2020 uccise nell’aeroporto di Bagdad il generale iraniano Qasem Soleimani e l’altro drone che il 28 novembre scorso, solo un giorno dopo la morte di Fakhrizadeh, eliminò presso il confine tra Siria e Iraq un alto ufficiale dei pasdaran iraniani, finora noto solo col nome di battaglia di Moslem Shahedan.


    Dunque che cosa sta accadendo in Medio Oriente?

    Per comprendere meglio gli eventi facciamo un passo indietro nel tempo rievocando l’accordo sul programma nucleare iraniano, sponsorizzato dall’allora presidente statunitense Barack Obama e firmato a Vienna il 15 luglio 2015 tra l’Iran e il cosiddetto gruppo dei 5+1, cioè i 5 Paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU (a cui ho dedicato un approfondimento nel numero di novembre 2020) più la Germania, e sottoscritto anche dall’Unione europea.

    Il programma nucleare iraniano, avviato negli anni 1950 dall’allora Shah Reza Pahlavi, poi deposto dalla rivoluzione islamica dell’ayatollah Khomeini, fu riattivato nel 2002 dal governo di Teheran nell’unica centrale atomica di Bushehr, sulla costa del Golfo Persico di fronte all’Arabia Saudita.

    Lo scopo ufficiale della lavorazione dell’uranio era e rimane l’uso civile per la produzione di energia, ma i  pessimi rapporti dell’Iran con i suoi vicini e con gli Stati Uniti hanno subito suscitato sospetti di una finalità militare, cioè la realizzazione della bomba atomica, che sconvolgerebbe gli equilibri strategici nella regione e che Israele ha più volte avvertito di non essere disposto a tollerare, dando per scontato che ne sarebbe il primo obiettivo. Riepiloghiamo tutti gli avversari dell’Iran, perché serve a capire meglio alcune situazioni che esamineremo tra poco: in primo luogo gli Stati Uniti, la cui ambasciata il 4 novembre 1979 (era presidente di Jimmy Carter) fu invasa col beneplacito del governo da manifestanti islamici, che fino al 20 gennaio 1981 ne tennero prigionieri gli addetti, nonostante il tentativo disastrosamente fallito delle forze speciali statunitensi di liberarli;  Israele, la cui distruzione è stata più volte esplicitamente promessa dagli ayatollah iraniani; l’Iraq, contro cui l’Iran combatté una sanguinosissima guerra dal 1980 al 1988; l’Arabia Saudita, alleata di ferro degli Stati Uniti nella regione e in lotta con l’Iran per la supremazia regionale; e infine gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, anch’essi filostatunitensi.

    Dopo le risoluzioni 1737 e 1747, con cui nel 2006 e 2007 l’ONU impose sanzioni all’Iran per il rifiuto di abbandonare il programma nucleare, si avviò una trattativa conclusa dall’accordo di Vienna del 2015, che in cambio del ritiro delle sanzioni imponeva all’Iran di ridimensionare e sottoporre a controlli internazionali il suo programma nucleare… ma dopo il subentro di Trump a Obama come presidente all’inizio del 2017 la controversia si è riaccesa e Trump, accusando Teheran di aver violato gli accordi, se ne è ritirato ripristinando le sanzioni contro la repubblica islamica.

    Ora apriamo un secondo filone d’esame, che ricollegheremo al primo tra poco, rievocando l’altro accordo firmato il 17 ottobre 1978 nella residenza presidenziale di Camp David dall’allora presidente statunitense Jimmy Carter, dal presidente egiziano Anwar Sadat e dal primo ministro israeliano Menachem Begin, suggellato l’anno seguente dal trattato di pace e dallo scambio di ambasciatori tra Egitto e Israele, che nell’ottobre del 1973 si erano combattuti nella guerra del Kippur.

    All’epoca la pace tra Israele ed Egitto suscitò uno scandalo inaudito nel mondo arabo: l’Egitto, accusato di tradimento della causa palestinese, fu espulso dalla Lega Araba, in cui fu riammesso solo nel 1987, e il presidente Sadat, mai perdonato dagli estremisti musulmani, fu assassinato il 6 ottobre 1981 da un soldato durante una parata militare.

    Tuttavia la storia ha continuato a fare il suo corso, a ottobre 1994 anche la Giordania riconobbe Israele e così, passo dopo passo sulla via della ragionevolezza nonostante la feroce opposizione dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (meglio nota come OLP) e degli estremisti islamici più accaniti, giungiamo al 15 settembre 2020, data della firma a Washington del cosiddetto “Accordo di Abramo” sponsorizzato dal presidente Trump, così chiamato dal nome del mitico patriarca comune alle tre religioni monoteiste: cristianesimo, ebraismo e islamismo. In due protocolli separati Israele ha stipulato con Emirati Arabi Uniti e Bahrein una serie di accordi commerciali e l’impegno del riconoscimento diplomatico reciproco: è un grande successo e un grande merito di Trump avere fatto compiere alla pace in Medio Oriente un passo così significativo; è un grande successo anche per Israele, che incrina il fronte arabo oltranzista e aggiunge ad Egitto e Giordania altri due Paesi della regione con cui avrà rapporti diplomatici e potrà avviare fruttifere collaborazioni; invece è una sconfitta, per l’OLP, sempre meno “pesante” e con meno amici nell’area, e infatti il presidente palestinese Abu Mazen si è affrettato ad accusare di “pugnalata alle spalle” i due Paesi arabi; e infine è una sconfitta per l’Iran, che vede sconfessato il suo oltranzismo anti-Israele e avverte sempre più opprimente il peso delle sanzioni economiche statunitensi e dell’isolamento nella regione, in cui ormai ha come unico amico la Turchia.

    Ma la notizia più esplosiva è la voce secondo cui due giorni dopo un recente incontro in Israele tra il Segretario di Stato di Trump, Mike Pompeo, e il primo ministro israeliano Netanyahu, quest’ultimo sarebbe volato in un aereo privato in Arabia Saudita per una riunione a tre con lo stesso Pompeo e il principe ereditario Mohammed bin Salman; i sauditi hanno poi negato la circostanza, ma d’altra parte sarebbe stato impensabile che l’ammettessero, bastandogli per il momento far trapelare la notizia.

    Difficilmente l’Arabia Saudita riconoscerà Israele finché vivrà l’attuale re 84enne Salman, ma da come si profilano gli eventi dopo il riconoscimento di UAE e Bahrein, mandati in avanscoperta, probabilmente il grande passo sarà compiuto quando gli succederà suo figlio Mohammed, che ha già aperto il Paese al turismo estero e nel 2018 è stato promotore del rivoluzionario – per quel Paese – permesso alle donne di guidare l’automobile.

    E così si saldano i due filoni di cui abbiamo parlato: da una parte lo sfaldamento del fronte arabo oltranzista anti-israeliano e filo-palestinese e l’avanzata del processo di pacificazione tra Israele e i Paesi della regione, e dall’altra il progressivo isolamento politico ed economico dell’Iran, arcinemico storico di Israele e degli Stati Uniti e rivale dell’Arabia Saudita nella lotta per l’egemonia regionale; viceversa, la comune amicizia con gli Stati Uniti e la comune inimicizia con l’Iran rendono Israele e l’Arabia Saudita alleati naturali.

    Ma ora interviene la variabile che potrebbe scompigliare la tessitura di Trump, che innegabilmente ha favorito l’inizio della pacificazione tra Israele e i suoi vicini arabi ed ha aggravato l’isolamento dell’Iran: questa variabile è l’elezione a presidente statunitense di Biden, ex vicepresidente di Obama a suo tempo fautore del compromesso con l’Iran.

    Biden proseguirà sulla stessa “linea dura” di Trump, che i fatti hanno dimostrato proficua, o proprio ora che l’Iran è alle corde economicamente e politicamente tornerà all’arrendevolezza di Obama, cedendo alle pretese dei fautori dell’accordo a ogni costo?

    Compromesso “a ogni costo” che rafforzerebbe il fronte oltranzista degli ayatollah e dell’OLP, e di conseguenza farebbe arretrare anche il processo di pacificazione tra Israele e i suoi vicini: infatti all’inizio di dicembre il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif ha già fatto la voce grossa, affermando che l’Iran proseguirà per la sua strada; voce grossa che data la posizione interna e internazionale dell’Iran, oggi oggettivamente più deboli rispetto ai tempi di Obama, può essere motivata solo dalla speranza che Biden si mostrerà accondiscendente come il suo ex presidente.

    Dunque il cerchio si chiude: le eliminazioni del generale Qasem Soleimani in Iraq all’inizio del 2020, di Fakhrizadeh il 27 novembre e del generale dei pasdaran Moslem Shahedan in Libano il giorno dopo, hanno la triplice valenza non solo di rallentare il programma nucleare dell’Iran o di decapitarne i vertici militari, ma anche di demoralizzare gli iraniani dimostrando alla popolazione l’impotenza del governo, che non riesce a neutralizzare la rete occulta operante indisturbata nel Paese… e infine, inasprendo il contrasto con l’Iran prima di lasciare la presidenza, Trump ha cercato di ostacolare eventuali velleità di Biden di disfare la ragnatela tessuta negli ultimi anni.

    Ricordiamo infine che sebbene nessuno abbia rivendicato l’agguato a Fakhrizadeh, pochissime organizzazioni nel mondo possiedono l’altissima efficienza logistica e capacità tecnologica necessarie per realizzare indisturbate un’operazione così complessa in territorio nemico… non credo di sbagliare identificando nella collaborazione tra la CIA o il Mossad (il servizio segreto israeliano) l’origine dell’operazione; del resto, mi pare politicamente impossibile che Stati Uniti o Israele abbiano voluto e potuto condurla l’uno all’insaputa dell’altro.

    Beninteso non sto emettendo giudizi morali, da cui mi astengo data la loro perfetta inutilità: è in corso una guerra a bassa intensità finalizzata ad evitarne altre ad alta intensità, che reclamerebbero un numero incommensurabilmente maggiore di vite e distruzioni… e ricordo per inciso che non c’è nulla di più pericoloso di un fanatico religioso convinto di potersi permettere tutto, anche di lanciare una bomba atomica su una città israeliana o europea, credendo che Dio sia dalla sua parte.

    E per chiudere l’ultimo colpo di scena, reso noto a metà dicembre proprio mentre stavo concludendo l’articolo: Trump imprime nuovamente il suo sigillo su uno strepitoso finale di presidenza convincendo anche il Marocco a riconoscere Israele in cambio dell’accettazione della sovranità marocchina sull’ex colonia spagnola del Sahara Occidentale, separata dalle Canarie solo da un braccio di mare.

    È difficile valutare a caldo le conseguenze comunque amplissime di questa decisione, ma posso fare subito una riflessione: non molto tempo fa un esponente di primissimo piano (funzione del tutto slegata dalla sua intelligenza…) del governo spagnolo ha criticato avventatamente la politica marocchina nel Sahara Occidentale… e guarda caso proprio in quel periodo si sono intensificati gli sbarchi di clandestini nelle Canarie, che tanto danno economico e sociale ci hanno causato.

    Ora sta di fatto che su questo argomento le posizioni ufficiali dei governi spagnolo e statunitense divergono nettamente, e che in questa situazione il Marocco sa di avere come sostenitore un Paese ricco e potente e come oppositore il governo di un Paese povero, debole e facilmente ricattabile per alcuni suoi territori molto prossimi al territorio marocchino, ma che ciononostante si permette il lusso di parlare spocchiosamente e a sproposito.

    Ognuno faccia le proprie considerazioni!

    E già che ci sono, una meritata menzione anche per l’Unione europea: che cosa fa l’UE in questo turbinio di decisioni difficili e di eventi gravissimi da cui dipende il destino del mondo…?

    Purtroppo il suo solito: impartisce all’universo inutili lezioni di presuntuosa morale, che ovviamente scivolano come pioggerellina sulla roccia dei fatti… auspica blah blah… deplora blah blah… e attende inerte i prossimi eventi per poter continuare a deplorare e auspicare.

    Semplicemente ridicola e penosa come i suoi dirigenti e i loro elettori, che non meritando più il benessere duramente conquistato dai loro nonni e bisnonni, inevitabilmente lo perderanno.

    Francesco D’Alessandro

     

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