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    Come sarà eletto il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America

    Alla metà di novembre, mentre scrivo questo commento, sono ancora incerti gli sviluppi della contestata elezione del presidente degli Stati Uniti.

    Biden apparentemente vincitore, o Trump che non sembra disposto a cedere…?

    Per non farci mancare proprio niente in questo drammatico 2020, alcuni analisti ritengono possibile una crisi istituzionale senza precedenti nella storia americana, con due presidenti virtuali che si contenderebbero la carica. Supponiamo comunque, in attesa degli sviluppi legali e di piazza, che l’elezione proceda sui binari ordinari e vediamo come sarà eletto il nuovo presidente…  sì, avete letto bene, ho scritto “come SARÀ eletto”… perché, contrariamente a quanto si crede, anche se non ci fosse tra i due contendenti l’avvelenata controversia che ormai ben conosciamo, lo scorso 3 novembre non è stato ancora scelto l’uomo che nel prossimo quadriennio guiderà il Paese più potente e più ricco del mondo, perché per la complessità del processo elettorale escogitato più di due secoli fa dai Padri Fondatori degli Stati Uniti, se non ci saranno intoppi il presidente sarà eletto solo il prossimo lunedì 14 dicembre.

    Infatti il 3 novembre scorso (e in tutte le altre analoghe elezioni presidenziali precedenti) i cittadini statunitensi NON hanno eletto il loro presidente, ma hanno solo scelto in ciascuno Stato i 538 “grandi elettori” che a metà dicembre dovranno nominare l’uomo più potente del mondo.

    Il numero di questi delegati non è uguale in tutti gli Stati, ma varia a seconda della popolazione di ciascuno, quindi la prima considerazione è che alcuni Stati più grandi e più popolosi sono più determinanti di altri; la seconda particolarità è che in tutti gli Stati, tranne il Maine e il Nebraska, il candidato che ottiene dalla votazione popolare il maggior numero di delegati elettorali si aggiudica tutti i voti spettanti a quello Stato, cioè anche il numero di “grandi elettori” attribuiti dai votanti al candidato avversario; da qui l’importanza dei cosiddetti “Swing States”, cioè gli Stati in bilico tra i due contendenti, che per una manciata di voti in più o in meno (magari conteggiati per ultimi perché inviati per posta) possono conferire in blocco tutto il loro peso elettorale all’uno o all’altro candidato.

    Può accadere – ed effettivamente è accaduto un paio di volte – che per effetto di questo complesso meccanismo risulti eletto presidente il candidato che a livello nazionale ottiene meno voti popolari… una circostanza criticata da alcuni come non democratica.

    Un’altra particolarità è che nessuna legge stabilisce che per scegliere questi rappresentanti gli Stati debbano indire elezioni; quindi – come già avvenne molte volte nei primi decenni degli Stati Uniti – i parlamenti dei vari Stati potrebbero, se volessero, legittimamente scegliere i loro delegati senza nemmeno interpellare gli elettori.


    In ogni caso, contrariamente a quanto credono molti, l’elezione del presidente degli Stati Uniti è INDIRETTA, cioè il presidente NON è eletto direttamente dal popolo.

    Secondo una legge del 1845, gli Stati designano i loro rappresentanti nel Collegio elettorale che sceglierà il presidente il primo martedì lavorativo dopo il primo lunedì di novembre, data che quest’anno ha coinciso con il terzo giorno del mese.

    In sostanza, dunque, dopo il voto popolare Biden è stato dichiarato vincitore solo estrapolando la proiezione dei voti dei delegati “attribuiti” a suo favore nei vari Stati, in alcuni dei quali la legge concede alle commissioni elettorali delle contee molti giorni, o addirittura settimane, per conteggiare i voti e dichiarare ufficialmente l’esito della consultazione nei rispettivi territori.

    Dunque quali saranno i prossimi passaggi dell’elezione presidenziale?

    Tra pochi giorni, l’8 dicembre, i governatori degli Stati dovranno confermare formalmente i voti e i delegati ottenuti da ciascun candidato nel loro territorio; se non lo faranno, la decisione sui voti e sui delegati contestati passerà al Congresso, cioè al parlamento nazionale.

    Il passaggio seguente sarà il lunedì successivo al secondo mercoledì di dicembre (che quest’anno coincide con il giorno 14, quindi quasi un mese e mezzo dopo il voto popolare), in cui i “grandi elettori” si riuniranno in ciascuno dei 50 Stati e nel Distretto di Columbia (sede della capitale federale Washington) per eleggere formalmente con i loro voti il presidente e il vicepresidente.

    La documentazione ufficiale di questa votazione sarà inviata al presidente del Senato, che in una sessione congiunta del Congresso leggerà a voce alta in ordine alfabetico il voto espresso da ciascun “grande elettore” in ciascuno dei 50 Stati e nel Distretto di Columbia e dichiarerà il risultato finale del conteggio; se nessun deputato o senatore contesterà per iscritto qualche voto, il presidente del Senato dichiarerà ufficialmente i nomi del nuovo presidente e del suo vicepresidente.

    Come si vede è una procedura elettorale complessa, lunga e tortuosamente “cartacea”, che mi sembra dimostri tutti i suoi due secoli abbondanti d’età!

    E cosa accadrebbe se ipoteticamente il 14 dicembre nessuno dei due contendenti disponesse di almeno i 270 “grandi elettori” su 538 che dal 2017 sono la maggioranza assoluta minima per essere eletto presidente, cioè se fra Biden e Trump ci fosse una perfetta parità di 269 voti ciascuno?

    In questo caso dice la legge che il presidente sarebbe eletto fra i tre candidati più votati, ma diversamente dalla votazione dei delegati del 14 dicembre ogni Stato esprimerebbe un solo voto indipendentemente dalla sua popolazione; invece il vicepresidente sarebbe scelto dai senatori, quindi in teoria – essendo il Senato dominato dai repubblicani – potrebbero essere eletti un presidente e un vicepresidente politicamente avversari.

    Nella storia questo ballottaggio è avvenuto una sola volta nel 1824, quando fu eletto non il candidato più votato dai delegati degli Stati – Andrew Jackson, che però non aveva ottenuto la maggioranza assoluta – bensì il secondo classificato John Quincy, che sconfisse anche il terzo sfidante William Harris.

    Se invece Biden ottenesse la maggioranza assoluta di almeno 270 voti su 538, il 20 gennaio 2021 a mezzogiorno il nuovo presidente e la sua vicepresidente Harris giureranno ed entreranno nell’esercizio delle loro funzioni.

    Chiudo quest’articolo con alcune mie considerazioni personali sulla politica interna ed estera statunitense dopo quest’elezione.

    * Lo scorso 20 novembre Biden ha compiuto 78 anni e sembra che non goda ottima salute; secondo alcuni analisti i democratici l’avrebbero scelto come candidato calcolando che proprio grazie alla sua scialba personalità ed età avanzata “Sleepy Joe” (Joe il sonnacchioso), come l’aveva denominato Trump, avrebbe agglutinato tutti gli oppositori del presidente in carica… ma che in realtà il vero presidente-ombra, da lanciare in orbita in attesa che diventi presidente a tutti gli effetti, o nella prossima elezione o addirittura prima che scadano questi 4 anni, sarebbe la più sinistrorsa vicepresidente Kamala Harris, con i due “valori aggiunti” simbolici per la sinistra di essere donna e di colore, ma che proprio per tutte queste sue spiccate caratteristiche forse in quest’elezione non avrebbe coagulato su di sé i voti di tutti gli anti-Trump.

    • Dunque secondo alcuni il principale merito elettorale del politicamente sbiadito Biden è di essere stato “l’ammazza-Trump”, che pertanto dovrebbe – sempre secondo gli anti-Trump – “disfare tutto il male fatto da Trump”. Se a questo sommiamo le sfide internazionali durissime che Biden dovrà affrontare, prima fra tutte lo scontro con la Cina per la supremazia politica, commerciale e militare mondiale, le aspettative riposte nella sua presidenza per vari motivi sono altissime… e quando le aspettative sono altissime è facilissimo deludere. I repubblicani assetati di rivincita lo aspetteranno al varco, pronti a sfruttare ogni sua minima difficoltà e insuccesso, che fatalmente non mancheranno… tanto più che molto probabilmente il senato sarà dominato dai repubblicani e quindi Biden si troverebbe contro uno dei due rami del potere legislativo diventando, come dicono espressivamente laggiù, un “lame duck”, cioè un papero zoppo.

    * L’ultima riflessione è sulla frattura della politica statunitense (e quindi della popolazione) in due schieramenti profondamente avversi e potrei quasi dire nemici tra loro. Per ricorrere a una metafora, quando due cavalli che dovrebbero trainare un carro tirano ciascuno in direzione opposta, evidentemente nonostante lo spreco di energia il carro rimane immobile; questa polarizzazione ideologica, che oggi non è più un fecondo e stimolante dibattito ma una sterile lite tra due forze uguali e contrarie, che crea solo debolezza e immobilismo, mi sembra anche uno dei motivi non secondari del declino italiano, ma nel caso degli Stati Uniti, dato il loro ruolo nel mondo, le conseguenze saranno pericolosamente imprevedibili: ad esempio, evidentemente a Cina e Russia, tanto per fare i nomi di due potenze internamente invece molto coese, sarebbe molto gradita una società americana profondamente lacerata al suo interno, e perciò un Paese debole verso l’esterno. Poi si sa, da cosa nasce cosa… ad esempio, una NATO senza la struttura portante statunitense non avrebbe senso, ma senza la NATO l’Europa diventerebbe militarmente ancora più inerme di quanto per sua propria colpa già è, e quindi nel medio periodo un’invitante preda non solo per la Russia e la Cina ma anche per la rampante Turchia. Ricordo, per inciso, che i leader di tutti i Paesi che ho nominato hanno come motto, come Trump, “il mio Paese prima di tutto”, e che di “salvare l’Italia” a nessuno gliene può importare di meno, considerandola al massimo come una pedina sacrificabilissima del proprio piano geopolitico. Tornando agli USA, ho già espresso più volte qui e altrove il mio rammaricato parere che entro qualche decennio purtroppo gli Stati Uniti non saranno più la prima potenza planetaria, e questa spaccatura del Paese, che già appare profonda e destinata ad aggravarsi, è contemporaneamente l’effetto del loro declino interno ed internazionale e ne sarà un ulteriore elemento accelerante. Concludo ricordando che un altro fattore di questa decadenza è – e sempre più sarà – la trasformazione dell’ex patria delle libertà in terreno di coltura del demenziale bacillo aggiornato del comunismo: la dittatura del politicamente corretto, per il quale qualsiasi sparuta minoranza vociferante merita più considerazione dei diritti della maggioranza… la cui demente camicia di forza ideologica prescrive anche nella lavorazione dei film quote per il colore della pelle, l’etnia e perfino il sesso vero o presunto… una blaterante idiozia che, senza capirli, vuole giudicare gli eventi del passato secondo i suoi propri dettami ideologici, e in base a questi dettami pretende addirittura di riscrivere la storia… e una sciocca idolatria, come unica e indiscutibile Verità, dell’assurda supremazia della finzione ideologica sulla realtà, che esige anche la violenta censura di chi ne dissente. I monumenti abbattuti di chi ha reso grande un Paese e la loro sostituzione con queste stupidaggini sono il segno inequivocabile che il declino è già molto avanzato… per tutti questi motivi purtroppo gli Stati Uniti, lo spirito della cui popolazione è già oggi  corrotto e fiaccato – come già tante volte è avvenuto nella storia – dalla loro stessa potenza e ricchezza e da un lunghissimo periodo di altissimo benessere, mi sembrano già incamminati sul sentiero di un graduale ma ineluttabile tramonto… e ancora più rapido e inglorioso sarà il declino all’Europa, sempre ansiosa di scimmiottarli ma solo nei loro difetti.

    Francesco D’Alessandro

     

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