Vero e proprio allarme quello lanciato dagli scienziati riguardo la presenza di zone morte negli oceani, un fenomeno osservato con attenzione e con preoccupazione nel corso di uno studio condotto da un gruppo di esperti tedeschi del Centro de Investigación Oceanográfica Helmholtz (Geomar) e della Università di Kiel.
Analizzando i dati raccolti sul livello di ossigeno nelle acque oceaniche negli ultimi cinque decenni, si evidenzia una diminuzione del 2% del prezioso gas, una percentuale apparentemente bassa ma che è relativa a circa 80.000 milioni di tonnellate di ossigeno ovvero una quantità sufficiente ad alterare gli ecosistemi e a creare delle zone morte negli oceani.
Il numero delle aree con totale assenza di ossigeno nelle profondità degli oceani è di fatto quadruplicato nell’ultimo mezzo secolo e le ragioni di questo inquietante fenomeno, sono da ricercare nell’aumento della temperatura del pianeta, provocato a sua volta principalmente dalla costante emissione di gas nell’atmosfera terrestre.
La capacità dell’acqua di assorbire ossigeno diminuisce all’aumentare della temperatura e quindi si riduce la quantità di ossigeno trasportato verso l’oceano profondo, minacciando tutta la vita che vi si trova.
Le zone morte sono state scoperte per la prima volta al largo delle coste dell’Africa occidentale e si sono rivelate fin da subito come zone altamente inospitali per la sopravvivenza delle specie acquatiche e dove riescono a sopravvivere solo alcune categorie di microorganismi.
Nel corso delle indagini è emerso che molte delle zone morte si trovano in prossimità di coste interessate dallo sversamento di sostanze chimiche fertilizzanti, responsabili di un aumento vertiginoso di alghe.
Una volta morte, le alghe si depositano sul fondo per essere decomposte dai batteri che, nel processo, consumano molto dell’ossigeno a disposizione.
La comparsa delle zone morte come risultato di questa significativa variazione, che si rivela più accentuata nella zona nord dell’oceano Pacifico e in quella sud dell’oceano Atlantico, potrebbe essere l’inizio di una serie di conseguenze catastrofiche, quali la possibilità che le correnti oceaniche, responsabili della vita nelle profondità, ne vengano coinvolte.
Le correnti possono infatti muovere le acque interessate da queste zone morte, presentandosi come dei vortici di 150 km di diametro e di centinaia di metri di altezza, nei quali l’area priva di ossigeno occupa il primo centinaio di metri.
La combinazione delle correnti con le zone senza vita produce un consumo di ossigeno 5 volte maggiore di quello consumato in normali condizioni.
Gli scienziati ricordano che al momento attuale sono oltre 200 le aree di diverse dimensioni catalogate come zone morte e la cui ripercussione sulla vita in generale potrebbe essere devastante.