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    Le meravigliose “Narici del Teide”

    foto di Francesco D’Alessandro

    Percorrendo la TF-21 che da Vilaflor si snoda verso il Teide, poco oltre il Museo intitolato a Juan Evora si incrocia a sinistra il bivio con la TF-38, imboccando la quale ci si dirigerebbe a Santiago del Teide; ma proseguendo ancora lungo la TF-21 verso la funivia, subito dopo il bivio si notano sulla sinistra un Mirador e un parcheggio dove lasciare l’automobile, perché proprio da qui inizia il Sendero 28 “Chafari” che si inerpica fino ai vulcani.

    Il primo km del percorso, che un cartello definisce di “difficoltà alta”, corre su una pista di sassi aguzzi serpeggiante in un’impressionante vasta pietraia cosparsa di radi cespugli e dominata dalle sagome incombenti del vulcano Teide e del suo fratello minore, il Pico Viejo; e terminata la pista sassosa si sbuca in un’altra pista sterrata, che sale per circa 4 km in pigri tornanti di moderata pendenza.

    foto di Francesco D’Alessandro

    Per questo strada facendo chiedevo perplesso a mia moglie, mia compagna di questa e altre sgroppate: “Ma dov’è la difficoltà alta …?”.

    Ma all’inizio del 5° km la perplessità si dissolse, perché improvvisamente ci trovammo dinanzi uno stretto sentiero erto e pietroso.

    Prima di abbordarlo ci dicemmo per farci coraggio: “Finora abbiamo scherzato… ora si fa sul serio”.

    E infatti dopo circa un km di inerpicata su per questo sentiero incontrammo la vera difficoltà: 2 km di ripida salita in pendenza di almeno il 30% su un suolo di fine ghiaia vulcanica, nerastra come tutto il panorama circostante, su cui il piede non fa presa bensì affonda, scivolando inesorabilmente all’indietro ad ogni passo in un’ascesa faticosissima anche aiutandosi coi bastoni.

    E l’altezza, a oltre 2700 metri di quota, certamente non agevolava la respirazione… il premio inestimabile però era sotto i nostri occhi: l’impressionante piana circolare della Caldera del Teide, racchiusa all’orizzonte da una nitida catena di brune alture rocciose contro un cielo di azzurro smaltato.

    Procedendo a fatica su uno stretto e sinuoso tracciato, a tratti quasi invisibile nella fine ghiaia nera, arrivammo infine alla meta: due crateri vicini ma di dimensioni disuguali, chiamati per questa contiguità le “Narici del Teide”. L’imponenza del cratere più grande mozzava il respiro: uno squarcio enorme e profondo nel terreno, che evocava alla fantasia l’apocalissi di millenni passati, quando tra fiumi di rossa lava incandescente il vulcano inferocito sputava contro il cielo le enormi rocce nere che oggi oniricamente ne cospargono le pendici.


    foto di Francesco D’Alessandro

    Inerpicandosi ancora per il sentiero si arriva allo spettacolare cratere ancora più vasto del Pico Viejo – che già visitammo in passato – e infine a Sua Maestà il Teide, ma stavolta decidemmo di non andare oltre: le lunghe soste per bearci placidamente dei panorami immersi in un ubriacante silenzio assoluto, e per scattare qualche centinaio di fotografie, avevano già consumato molto del tempo disponibile e l’orologio era un implacabile tiranno: infatti, stanchissimi ma inebriati da tanta bellezza, anche affrettando il passo nei 4 km finali di pista dopo i 3 iniziali di ripida e scivolosa discesa – faticosa anche per le povere braccia, che scaricando sui bastoni il peso del corpo cercavano di alleviare le sofferenze di ginocchia e caviglie – arrivammo al parcheggio poco prima del temutissimo buio.

    Camminata da ripetere la prossima primavera, perché quell’enorme ferita circolare squarciata nella carne viva della montagna è uno spettacolo da vedere almeno una volta nella vita… ma che dopo averla vista ti convince che una sola volta non basta.

    Francesco D’Alessandro

     

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