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    Vestivamo alla marinara ma i nostri figli hanno barche di carta

    Gli anni ’60 e ’70, sono quelli di Woodstock, delle uniformi di Sergeant Pepper’s, delle fontane di Washington colorate di cittadini che guardavano il potere negli occhi da pari a pari…

    Come è possibile non amare quel passato un pochino di più ogni anno che passa?

    La forza di quella generazione era figlia di un’infanzia libera in cui i giovanissimi non erano ancora diventati carne da cannone per la religione del Mercato, non erano interessanti perché non erano ancora diventati acquirenti potenziali.

    Crescevano in uno spazio in cui gli adulti non guardavano, non entravano.

    Se mettevamo il naso fuori, censuravano ogni nostro intervento, nei discorsi per grandi.

    I bambini non interessanti del ventennio ’50-70, si sono fatti grandi dentro pomeriggi lunghi senza televisione.

    Si scendeva in piazza con un pallone per vedere chi c’era, se vedevi un ragazzino che gironzolava guardandoti con la coda dell’occhio, bastava un: “ Ciao vuoi giocare”?

    Passate un paio d’ore si era in venti, passati un paio d’anni si era fratelli per sempre.


    Nel nostro Cinema Paradiso ritroviamo tutti le stesse scene: discese senza freni di sciami di  biciclette, amori di sguardi, sapore di succiose, fruscio di tovaglie e lenzuola armate sugli olivi come vele per giocare ai marinai in pericolo e cadere tutti insieme in una tempesta di risate.

    Oggi quei bambini hanno più di 50 anni e rivestono il ruolo dei giovani universitari del ’68, sopportano la carica degli idranti, analizzano un sistema di mondo e gridano a pieni polmoni che ne vogliono un altro.

    Dobbiamo a quella generazione il fatto che ci siano ancora utopisti pronti a tenere accesa la luce che connette uomini e stelle.

    Rifiutano il mondo futuro che ci arriva addosso come un camion in contromano, e rivendicano il diritto di tenere in piedi il passato, quello in cui le macchine non pensavano e i giovani invece sì.

    Può sembrare romantico e bello ma in realtà il progresso non funziona così.

    Sarebbe più sano e normale se giovani fra i 18 e i 30 anni rifiutassero il conservatorismo insito nel progetto di fusione fra neoliberismo e capitalismo cinese.

    Se si opponessero al progetto di trasformare il pianeta in una grande Fiat degli anni venti e proponessero un futuro diverso, fresco, scandaloso e di rottura.

    Perché questo fanno i giovani.

    Sempre con le dovute eccezioni, la maggioranza dei giovani è oggetto degli studi di Galimberti sul nichilismo, cerca degli altrove in cui vivere che sono estensioni o distorsioni del  mondo interiore oppure resta in stallo, schiacciata in una dimensione presente priva di spazi vuoti a lungo termine dentro i quali lanciare sogni.

    La domanda importante che emerge dai segnali emessi dal mondo dei giovani non riguarda cosa vogliono fare, riguarda la difficoltà di capire chi sono, schiacciati in una società che impone modelli pronti e non fa domande aperte, perché ogni aspetto dell’esistenza è predeterminato e funzionale a uno scopo che non è mai esplicito.

    Se il nostro marchio giovanile era l’arroganza e l’incoscienza, il loro è lo scetticismo e il senso di impotenza.

    Spesso frutto di realtà familiari disfunzionali, cercano di aprire le ali nella tempesta di offerte di modelli pronti, di idoli volgari, di miti materiali, di situazioni immutabili definite dalla regia occulta di adulti che della creatività e del potere dirompente della gioventù se ne fregano allegramente.

    A volte non sono fragili, hanno la stoffa per guardare la vita in faccia e allora sono disincantati ma il disincanto è fonte di disenergia, la gioventù si nutre d’incanto.

    Se scarichiamo da internet i testi delle loro canzoni, non ci resta che chiedere perdono per il mondo e il modo in cui li abbiamo allevati.

    Un mondo senza spazi vuoti da riempire con fantasie inedite.

    Parlandoci francamente, nessuno di noi ha chiarissimo come riavvolgere il nastro e tornare a una situazione in cui possiamo avere un controllo anche minimo, anche solo un punto di partenza per ripensare la relazione fra potere e cittadino.

    Tuttavia, temo che non possiamo essere noi, vecchi bambini con le ginocchia sbucciate e il giradischi a pila, i progettisti del futuro.

    Un ritorno istintivo all’ultima ricetta di mondo in cui ci sentivamo al sicuro da un lato è perdonabile, dall’altro è una riedizione di un meccanismo di rivolta buono per il vecchio mondo ma privo di sbocco per questo.

    La via d’uscita è preparare i giovani a fare il loro lavoro.

    Nel troppo pieno di questo senso di constante oppressione che ci martella, creare vuoti è la risposta.

    Il progettista di un futuro in cui, anagrafe alla mano, noi non ci saremo, non credo che possiamo o dobbiamo essere noi.

    Dobbiamo avere cura dei giovani come mai prima.

    E parlando di giovani, apriamo una riflessione sul perché siano i grandi assenti del progetto del futuro.

    Dove sono e cosa fanno i giovani che non vogliono più cambiare il mondo?

    Uno spunto utile per farci le domande giuste è un episodio verificatosi in questi giorni nel Liceo Righi di Roma.

    Non un liceo qualsiasi.

    La scuola leader della rete di licei che, partendo da Roma, in tutta Italia, chiede una scuola giusta.

    Una scuola che riassuma il passato utile  ma lasci spazi per dare strumenti per navigare un presente difficile e un futuro pericoloso.

    Il fatto in sintesi: una studentessa fa la bellina -con pancia fuori e moine- per un selfie ad effetto durante un’ora buca, un’insegnante le dà della puttana, la classe scoppia, la scuola scoppia, i social scoppiano, gli altri licei scoppiano, Roma intera scoppia.

    Fedeli alle distorsioni così care all’informazione pubblica, i media fanno primi piani al microscopio della bava alla bocca delle parti in gioco, danno risalto alle reazioni di pancia, si guardano bene dall’analizzare il fenomeno dall’alto, nel suo senso profondo, i suoi presupposti e le sue conseguenze.

    Se invece lo facciamo, se analizziamo senza spirito di parte presupposti e conseguenze della totale perdita di dignità…

    – della scuola come istituzione,

    – degli insegnanti come costruttori di persone

    – degli alunni come unica risorsa irrinunciabile di un paese che voglia avere un futuro.

    Allora sì, ci avvicineremo a capire come siamo arrivati a riporre le speranze in sessantenni che rivendicano il passato e non in ventenni che rivendichino il futuro.

    Sul perché molti di quei giovani considerino così importante fotografarsi l’ombelico.

    E’ vero che i Ragazzi non hanno più rispetto per la scuola e per i professori, ma è vero che “L’azienda scuola” ruba loro il tempo in cui formarsi alla vita e non li forma, non li ascolta, li manda via con le date delle battaglie studiate a memoria e nessuna indicazione su come affrontare la vita.

    I professori un tempo viaggiavano e compravano la casa al mare con lo stipendio, facevano politica, dibattevano, scioperavano…

    Oggi compilano piramidi di moduli inutili, non hanno i soldi per comprare le scarpe ai figli, non possono permettersi le penali sullo stipendio se scioperano, non hanno alcuna libertà didattica.

    Sono schiacciati dentro lo stesso tostapane per cittadini inoffensivi in cui si dibattono i loro allievi e succede che non abbiano la forza o la voglia di fare gli eroi.

    Ho faticato per trovare notizie sulle rivendicazioni -sacrosante devo dire- dei nuovi movimenti studenteschi.

    Non una parola, non una, su nessun media, su nessun blog, su nessuna fonte d’informazione per noi adulti, su ciò che i nostri figli chiedono per usare il mondo instabile che abbiamo consegnato loro.

    Non un professore né un genitore al loro fianco per appoggiare la loro richiesta d’aiuto: vogliono una scuola in cui imparare ciò di cui hanno bisogno per vivere nell’oggi e non nell’ieri.

    Non un giornalista, non un preside, non un professore, non un politico opportunista… nessuno raccoglie la loro voce e fa da grancassa.

    Sono soli.

    In compenso, è quasi impossibile non aprire internet e imbattersi nella guerra fra una ragazzina irrispettosa e un’insegnante che del suo lavoro non ha capito niente.

    Toni da Novella 2000 e giù la rissa sui social.

    Non pretendo di avere risposte ma molto umilmente vorrei condividere le domande che farei se un Preside o un Ministro all’istruzione mi ascoltasse.

    Se i Ragazzi vedessero nella scuola una opportunità d’oro per capire come diventare chi sono e realizzare i loro sogni, farebbero della provocazione sterile uno strumento di comunicazione e protesta?

    Se la società aprisse porte a centinaia di luoghi in cui incontrarsi fisicamente e condividere esperienze interessanti , arricchenti, formative, divertenti e sane, vivrebbero prigionieri dei loro “falsi-me” lanciati nel web come messaggi nella bottiglia?

    Se i docenti fossero rispettati, ben pagati, liberi di godere di un lavoro meraviglioso e farne una missione, darebbero della puttana a una ragazzina che infrange un protocollo o avrebbero tempo e voglia di spiegarle un buon motivo per non fare del suo ombelico il centro del mondo?

    Concludendo, mentre leggevo con grande interesse le richieste di aiuto di Ragazzi che cercano un feedback nella gente della nostra generazione per tirar giù le fondamenta di qualcosa che assomigli alla speranza di farcela nel mondo, mi sono imbattuta in una frase che ha mandato a gambe all’aria tutte le precedenti riflessioni.

    “Gli studenti comunicano che per entrare alle assemblee dei comitati organizzativi sarà richiesto il Green Pass”.

    Ecco fatto.

    Li hanno già nel sacco.

    Sono topi da laboratorio che chiedono una gabbia più comoda e tre semini in più.

    E’ un circolo vizioso dal quale sarà complesso uscire.

    Rispettano la madre di tutte le bestemmie sulla libertà e la dignità della persona mentre si riuniscono per rivendicare il loro diritto a rivendicare lo spirito critico indispensabile per affrontare la vita.

    Cercano l’approvazione dei carnefici e si contentano di mostrare il culo a scuola.

    Sono loro, non noi quelli che possono prendere in mano il futuro, dobbiamo accettare questa semplice verità.

    Ma partendo da così tanto lontano da un punto di partenza credibile, la strada per renderli capaci di superarci, rifiutarci in modo costruttivo, rielaborarci e far fare un passo avanti all’umanità e alla storia, è così lunga e difficile che in coscienza non credo, che il migliore punto di partenza sia “il codice di abbigliamento a scuola”.

    Preferirei vederli nudi con una scimmia in testa bruciare i greenpass fuori dalla scuola che vederli abbottonati fino al collo pettinati e sbarbati, che mostrano il greenpass al bidello senza batter ciglio.

    Fermo restando che è fondamentale saper distinguere un contesto da un altro e saper adeguare l’abito mentale prima e quello esteriore poi, credo che l’umanità del futuro -i nostri figli e i nostri nipoti- abbia in questo momento guai molto più seri da risolvere e che le ricadute in termini di galateo e etichetta siano solo effetti collaterali che avvisano che c’è un problema ma non il problema.

    Pensare che dei Ragazzi che si chiedono a vicenda il greenpass per organizzare la rivoluzione possano nel frattempo frequentare una scuola che spegne il loro spirito critico, consapevoli dell’importanza di abbottonare la camicia, sinceramente, non mi farebbe dormire più tranquilla.

    Claudia Maria Sini

     

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