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    Il femminismo e il maschile inclusivo

    La tematica del femminismo è prepotentemente di moda, non per difetto di Erdoğan, che certamente ha contribuito a evidenziare quanto forte sia l’assenza di democrazia nel suo stato, ma per il dibattito occidentale sul linguaggio inclusivo maschile che discriminerebbe la donna.

    Il femminismo nella storia della società umana ha vissuto tre tappe: la prima si occupò dei diritti specifici: acceso all’istruzione e alle elezioni sia come soggetto attivo che passivo; la seconda denunciava le forme di oppressione verso il genere femminile, tutte quelle azioni volontarie e no che la cultura e i modelli patriarcali e “machisti” esercitavano nella società; la terza il momento in cui la discussione sull’oppressione si fece più profonda: il femminismo inglobò le rivendicazioni per discriminazione di tutte le minoranze, etniche, religiose o per genere.

    Dal riconoscimento come soggetto giuridico si passò al riconoscimento paritario di tutte le minoranze.

    Attualmente si ritiene che una delle forme di oppressione nella quale viviamo, per cui alcune femministe riportano la discussione indietro nel tempo, sia l’utilizzo del linguaggio maschile nel settore della burocrazia e delle amministrazioni. Fatto che discriminerebbe la donna per genere.

    Effettivamente la società ha adottato un sistema grammaticale preferendo un maschile inclusivo, ossia l’utilizzo del genere maschile che comprenda nella sua logica anche il genere femminile.

    Quando si fa riferimento nei discorsi ad una platea eterogenea si utilizza la formula maschile cosiddetta inclusiva: parlando cioè di alunni di una scuola si fa riferimento al generico alunni, alludendo tanto agli alunni di sesso maschile quanto agli alunni di sesso femminile.

    Così è per gli atleti che rappresentano la nazione alle competizioni. Non si distingue tra atleti o atlete. Il femminismo finora se l’era cavata benino.

    Le donne hanno accesso all’istruzione e hanno parità di diritti garantiti nella costituzione degli stati democratici. Ma sembrerebbe che il maschile della grammatica toglie visibilità alla donna.


    Per sensibilizzare la società ad un uso linguistico appropriato, in Italia, alcuni enti e istituzioni hanno proceduto alla redazione di alcune linee guida per scrivere correttamente una lettera, un  qualsiasi documento diplomatico o burocratico adeguando il linguaggio al genere del rappresentate la carica.

    Il personale istituzionale sta svolgendo, facoltativamente, dei corsi di aggiornamento circa l’uso del genere nel linguaggio amministrativo.

    Per cui si, legge ne le “linee guida per l’uso del genere” che la riflessione sul modo di rappresentare la donna attraverso il linguaggio diventa fondamentale nella costruzione della società odierna.

    Questo approccio risalente alla seconda fase del femminismo, quello degli anni ottanta (1980), si rifà proprio agli scritti di quegli anni e possiamo dire, quindi, che non si tratta di una evoluzione del femminismo ma di un suo recupero.

    Il testo base di queste linee guida è del 1987 “Il sessismo nella lingua italiana”.

    L’idea di fondo era che la donna dovesse adeguare il suo modello a quello maschile: per ogni definizione maschile era doveroso il corrispettivo femminile.

    Avete presente i dibattiti in Spagna con le continue precisazioni su “deputato e deputata, presidente e presidenta, ministro e ministra, alunni e alunne”?

    Per evitare che i discorsi appaiano lunghi e faticosi all’ascolto ci si è rifugiati nel maschile inclusivo. Oggi sotto accusa per essere comunque un linguaggio sessista.

    Sembrerebbe difficile, però, riconoscere in un linguaggio inclusivo maschile, dove storia culturale e grammatica si sono fuse, una volontà cattiva di emarginazione e discriminazione femminile.

    Il linguaggio maschile inclusivo ottempera alle linee grammaticali e alla parità di genere garantendo alla donna la parità di possibilità.

    È un linguaggio, non una legge sociale. Se al principio, cioè, il linguaggio di presidente dava per implicito che solo la figura maschile potesse essere presidente, oggi dopo la parità di diritto, presidente può essere anche donna.

    Per evidenziare questo risultato ed integrarlo come ovvietà culturale si propone di adeguare al genere che lo rappresenta il titolo della carica: presidenta se donna. 

    Le linee guida in Italia ricordano che se, ad esempio, il presidente è donna, verrà annunciata con La presidente.

    La lingua italiana ha gli articoli che identificano e non discriminano.

    Le linee guida sono ancora una semplice serie di consigli senza il carattere dell’obbligatorietà.

    Il dirigente femminile può ancora firmare il dirigente e il direttore d’orchestra può definirsi direttore anche se donna.

    Laddove però non è possibile adeguare il femminile si invita ad utilizzare una forma neutra: la direzione, il dipartimento ecc…

    Negli Stati Uniti dilaga il gender. Per gender si intende l’insieme delle caratteristiche socioculturali che si accompagnano all’appartenenza all’uno o all’altro sesso.

    Il cambio di prospettiva è fondamentale per capire cosa oggi il femminismo intende per discriminazione per gender.

    Se il primo femminismo voleva annullare le differenze per raggiungere l’uguaglianza oggi si vuole rimarcare la differenza esigendo per la differenza il diritto.

    Quello che avviene così è in realtà una identità di genere. Non una parità tra generi. E avviene così che in rispetto alle identità di genere, per non offendere qualcuno e offendere nessuno, si debba adeguare il linguaggio utilizzando una formula neutra.

    Ed è così che si passa dalla discriminazione per una uguaglianza civile al non offendere nessuna identità, al cancellare tutte le identità favorendo un neutro. Infatti irrompe, nel dibattito, una idea che per l’identità di genere si debba utilizzare la forma neutra: “ə”.

    Questa ultima novità proviene dall’Italia: annullare il maschile inclusivo preferendogli una vocale neutra. Un carattere inesistente nella lingua italiana:  “ə” , con una pronuncia a metà tra la vocale a e la vocale e.

    Il linguaggio è certamente lo specchio di una società, quello attraverso il quale la società consolida se stessa. Ovviamente è in evoluzione tanto la lingua quanto la società.

    La sensibilizzazione ad una storia critica del linguaggio è un argomento che concerne l’educazione scolastica e su questo tanto la Spagna come l’Italia stanno insistendo molto proponendo biografie di studiose e scienziate donne che hanno caratterizzato importanti momenti storici.

    Altro discorso è il linguaggio sessista, per cui una educazione alla parità è sempre necessaria, e questo riguarda la discriminazione per genere.

    La discriminazione di genere non è eliminata se la funzionaria o la deputata verrà considerata inferiore e subalterna.

    Sarebbe opportuno ricordare che il movimento femminista si appoggia giuridicamente sul principio di cancellare le discriminazioni per genere.

    Quello che rischia di essere discriminato è invece il maschile, per genere. L’uguaglianza è una uguaglianza civile. 

    Il concetto è stato espresso da Ruth Bader Ginsburg. Pilastro del femminismo americano, sfortunatamente famosa in Italia solo per essere contraria a Donald Trump.

    Nella sua prima causa, da cui il movimento femminista prese le mosse, difendeva un uomo da un diritto negato, in quanto vedovo, ad accedere agli aiuti familiari per i figli. Aiuto che se fosse stato, invece, vedova avrebbe ottenuto. 

    La discriminazione per genere condiziona la vita di tutti. Non è esclusività del genere femminile in quanto tale, ma è discriminatorio per genere. Su questa base si fonda il principio del femminismo.

    Il linguaggio maschile si utilizzava perché le cariche istituzionali erano accessibili solo agli uomini per cui si trasmette qualcosa che dovrebbe smettere. Ma è nell’atto che si smette.

    Visualizzare una donna come rappresentante di una carica storicamente appannaggio dell’uomo è manifestazione di uguaglianza.

    Poco importa se a chiamarsi è presidente, ciò che sarebbe assurdo è chiamarsi presidentə.

    Paradossalmente questa proposta mette l’accento sul fatto che ad essere importante è la carica e non chi la rappresenta.

    Annulla il genere tanto femminile quanto maschile,  mentre lo scopo del femminismo, così come quello di una linea guida sul linguaggio è proprio quello di evidenziare la presenza femminile marcando, così, l’immagine della donna proprio per identità di genere. Non discriminazione di genere.

    Se in principio il femminismo si fondava sulla concezione che la donna in quanto essere umano di genere femminile avesse il diritto a svolgere la sua vita sociale di forma indipendente ed individuale esattamente come l’uomo, l’accento che il femminismo politico di oggi pone sull’appartenenza al genere, la rende ghettizzabile.

    Rivendicare leggi che tutelino la particolarità di genere significa implicitamente accettare una differenza per la quale si richiede una legislazione a parte, democratica ma pur sempre a parte.

    Concetto, questo, che il femminismo non approva. Concetto che le esponenti politiche tanto italiane quanto spagnole stanno confondendo.

    Su queste stesse tesi il partito di Vox, in Spagna, fonda la sua proposta per l’utilizzo del maschile inclusivo e avverte sull’anticostituzionalità di leggi ad persona, in questo caso per genere.

    Vedere riconosciuta la donna solo attraverso l’uso del genere femminile non è propriamente un concetto caro al femminismo.

    Del resto è bastato un incontro diplomatico ad evidenziare come la discriminazione per genere avviene indipendentemente dalla vocale di una presidenza. 

    Di fresca memoria, l’episodio del sofa-gate diffonde l’immagine di una donna appartata sia essa presidente, presidenta o presidentə.

    Giovanna Lenti

     

     

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