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    Vittima non è un cognome

    Riflessioni elementari sulla nuova legge sulla violenza di genere.

    293 donne uccise in Spagna nel 2003 determinano la nascita del termine “violenza di genere”.

    11 uccisioni nel primo mese del 2019, non danno l’idea che ci sia precipitati a trovare una soluzione.

    Parrebbe che ci siamo, è uscito il Decreto Reale urgente contro la violenza di genere che scavalca e cancella ogni precedente legge e batte il pugno di ferro sulla tavola.

    La prima cosa che ho notato leggendolo, è che il sostantivo prescelto per dire donna, è “vittima”, come se i due termini fossero interscambiabili o “vittima” fosse un cognome.

    Direi che un patto a difesa del diritto di NON cadere vittima di violenza, già si presenta con il sostantivo sbagliato.

    I punti forti del Patto di Stato sono le procedure di urgenza, la possibilità di scegliere quando e se partecipare al processo, l’aggiunta di un penalista alle figure degli avvocati d’ufficio, l’apertura a segnalazioni e denunce non solo dalla parte interessata, il coinvolgimento attivo nel coinvolgere gli ayuntamienti nel monitoraggio e l’assistenza.

    Si interviene sulla vittima dopo che è già divenuta tale.


    Ora, a due bimbi cui abbiano ucciso la madre a calci e pugni, o a una ragazzina violentata per giorni da un branco, non credo possa piacere questa legge.

    E nemmeno ravviso un livello di sufficiente attenzione ai casi in cui, donne più affilate dei coltelli dei loro mariti, utilizzino in modo trasversale la violenza di genere per colpire ex mariti, ex amanti, colleghi. 

    Purché parta una denuncia infatti, l’irruenza con cui la giustizia carica il denunciato è spettacolare ma poco adatta a distinguere le denunce fondate dalle vendette trasversali.

    L’errore di fondo secondo me è puntare a una soluzione prettamente giuridica.

    L’oppressione delle donne è un problema antico, si risolve educando gli uomini a non considerare il dominio una espressione di virilità e la virilità come l’unica immagine di sé degna di rispetto.

    Si risolve aiutando le donne a non preparare il pranzo a una bestia che anche solo una volta le ha offese o colpite, dando loro un posto sicuro dove andare con i loro figli, ben prima di una denuncia.

    Strutturando una rete sociale che non lascia spazio per il secondo insulto o il secondo ceffone.

    Una soluzione meramente giuridica, che arriva a reato commesso, è una foglia di fico per un mondo a guida maschile che non riesce a guardare negli occhi nemmeno l’idea di una bambina che gioca terzino di sfondamento e un bambino che fa danza classica.

    Continuiamo a perpetrare vecchi simboli, i maschi crescono con Bud Spencer e John Wayne, poi si vedono progressivamente ridotti a cittadini inermi, lavoratori indifesi, padri chiusi fuori dai telefonini dei figli,  mariti cui nessuno vuol rammendare i calzini.

    E’ la discrepanza fra impostazione culturale e realtà del quotidiano che crea piccoli mostri spaventati.

    La corrente fredda di un mondo che cambia che ci piaccia o no, non si naviga dando un paio di anni di galera in più e magari processando più in fretta un uomo che ha già trasformato una donna in una vittima.

    La giustizia del dopo lascia il tempo che trova.

    E’ una foglia di fico.

    Finché useremo un culo e un paio di tette per pubblicizzare un condizionatore, finché sarà più facile che un cammello passi per la cruna di un ago piuttosto che una donna diventi Primario ospedaliero, fino ad allora, l’ultimo livello della condizione di vittima, quello che non possiamo proprio fare a meno di vedere, poggerà sulle basi solidissime di molti altri strati di violenza di genere con i quali conviviamo con la massima serenità e sono le fondamenta vere del palazzo dell’ingiustizia.

    Scrivere in una legge, 34 volte, “vittima”, per intendere cittadino accusatore di sesso femminile, sembra una cosa ben fatta e normale in un mondo ancora molto lontano da una soluzione credibile.

    Claudia Maria Sini

     

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