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    Un “Omarello” a Puerto de la Cruz (quinta parte)

    Foto di Cristiano Collina

    Dopo aver visto ed escluso a malincuore le splendide cittadine di Guimar e Candelaria, la mia esplorazione del centro-nord dell’isola poteva dirsi conclusa (scartai posti belli come La Orotava, perché oltre a certi motivi di incompatibilità già enunciati, questa cittadina ha tutte le strade in salita, ed è quindi faticosissima per un vecchio, quale io sarò; e S.Ursula, perché ai difetti menzionati per altri luoghi, avrebbe aggiunto una frustrazione insopportabile: godere della vista di un bellissimo mare dall’alto, senza poterne fruire da vicino).

    Adesso ero pronto per la grande prova: recarmi al sud.

    Nel profondo sud di Tenerife feci due ricognizioni: la prima, in visita alla mia amica Lily Rapini, che lavora a Los Cristianos da più di vent’anni e vive in collina alle spalle di Las Americas; la seconda, ad Adeje.

    La prima esplorazione a Los Cristianos fu sufficiente a chiarirmi le idee: scendo dalla “guagua, abbraccio Lily che è venuta a prendermi ed è affascinante, bellissima e mezza nuda come si conviene in un luogo di mare, mi incammino con lei verso il ristorante da lei prenotato e… comincio a vomitare. Il mio vomito è soltanto figurato; tuttavia, nel senso letterale e fisico devo più volte rimandare indietro i miei succhi gastrici che reclamano una via di uscita. Lily nota un mio disagio, mi interroga e le dico che il viaggio in corriera mi ha fatto venire la nausea. Mi concentro su di lei che è “da urlo” nonostante non sia più giovanissima, mi concentro sugli argomenti della conversazione perché ho a che fare con una elegante donna intellettuale e con queste io brillo sempre e da sempre, butto ogni tanto lo sguardo sull’incantevole spiaggia che stiamo costeggiando e sull’oceano incredibilmente tranquillo, e un po’ alla volta mi calmo. Ma non mi passa un senso di fastidio. Il pranzo per due, a base di molto pesce pregiato, è eccellente, e sebbene costi di più che al nord, lo pago sempre assai meno che nella esosa Bologna. Ma mentre mangio quelle prelibatezze in deliziosa compagnia, io non vedo l’ora di fuggire da Los Cristianos. Quando finalmente ci riesco, e sono sul pullman per il ritorno a Santa Cruz, provo un dolce sollievo, che aumenta ancora quando raggiungo la capitale, città cupa ma umana. Ed ho già le idee chiare su Los Cristianos, e su Las Americas che pure ho visto di sfuggita camminando con Lily. Inoltre la notte mi porta consiglio, e disteso nel letto dell’albergo prima di prendere sonno, avendo già superato le sensazioni e raffreddato le emozioni penose, posso fare un bilancio razionale: sul piatto della bilancia da assegnare ai pregi, le località che ho appena visitato pongono senza dubbio dei punti pesanti, come bellissime spiagge attrezzate, un bel lungomare, servizi di ristorazione abbondanti ed eccellenti, una popolazione balneare variegata ed anche giovane (mentre nelle spiagge del nord ci siamo quasi esclusivamente noi pensionati). Ma ciò che io non sopporto e che mi ha dato tanto malessere è la “alienazione”. Chiedo scusa al venerabile Michelangelo Antonioni se ho usato questa parola in un’accezione così deteriore rispetto alla sua (per non parlare dei grandi filosofi), che aveva una dignità. Magari, a Los Cristianos trovassi l’alienazione di Antonioni! Dirò dunque “reificazione”: l’essere umano che si è ridotto a cosa tra le cose. Il contesto ambientale, tutto uniforme e privo di gusto, senza tracce di civiltà, appare come Rimini e Riccione negli anni ’60, ma senza il calore e la genialità dei Romagnoli, che seppero vendere una costa che non vale niente, ed un mare grigio e torbido, a milioni di turisti per decenni. Ma vi è un’altra differenza ancora: negli anni del boom economico italiano, l’euforia era diffusa e generalizzata, era qualcosa di autentico, e quindi incontrando l’euforia altrui incontravi pur sempre l’uomo, tuo simile, tuo fratello; oggi invece l’euforia autentica è impossibile, per la situazione planetaria in cui ci troviamo, e tu… proprio tu… tu che mi leggi e forse mi stai mandando a quel paese, tu… delle due, l’una: o questa condizione la conosci, o la rimuovi. L’allegria diffusa di Los Cristianos è un fatto di inautenticità, di rimozione. L’omarello su queste cose è percettivamente acuto, ed è per questo che l’omarello a Los Cristianos prova angoscia. Un’angoscia di poco inferiore a quella che mi diede nella mia amatissima Sardegna, Porto Cervo, quando la visitai per la prima volta da adulto. Los Cristianos mi appare come una Porto Cervo su scale differenti. Ovvero una città pensata per l’evasione e il divertimento di automi spersonalizzati. Un tempio della disumanazione, dell’annientamento dell’uomo. Puerto de La Cruz non è così, come non lo è Cala Gonone-Dorgali in Sardegna; queste ultime sono località turistiche a misura d’uomo e non di automa. Prima di prendere sonno mi viene alla mente una immagine più distensiva: Las Americas. Certamente Las Americas è più ridente, più verdeggiante, più riposante, con meno “ammasso” di edifici, strutture e corpi umani: questo mi ha detto la mia impressione soggettiva, e questo mi ha testimoniato pure Lily che ci vive da tanto tempo; però quel quid che ho chiamato “alienazione” o “reificazione” io l’ho avvertito anche lì. “Mutatis mutandis” e fatte le debite proporzioni, mi sembra che intercorra tra Las Americas e Los Cristianos lo stesso rapporto che vi è tra Cesenatico e Rimini, e se io fossi costretto a scegliere tra Cesenatico e Rimini, sceglierei senz’altro Cesenatico. Ma se fossi libero di scegliere, non andrei nemmeno a Cesenatico.

    (Continua)

    di Davide Selis

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