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    Canarie: protestare sì, ma con lucidità. Il nemico non è il turista

    Negli ultimi tempi, l’arcipelago delle Canarie è attraversato da un crescente malcontento sociale. 

    Cortei, scritte sui muri, post virali sui social: una parte della popolazione locale ha deciso di puntare il dito contro il turismo di massa. 

    In questo clima teso, a farne le spese sono anche residenti stranieri – soprattutto italiani e britannici – che da anni vivono stabilmente nelle isole o vi hanno scelto una seconda casa. 

    Il tono della protesta, però, ha cominciato a prendere derive preoccupanti, a tratti irrazionali, che rischiano di trasformare un problema reale in una battaglia mal indirizzata.

    La frustrazione di molti canari è comprensibile. 

    Il costo della vita è salito, gli affitti sono diventati proibitivi per tanti, le infrastrutture arrancano sotto il peso di milioni di visitatori ogni anno. 

    La sensazione diffusa è che l’equilibrio tra vivibilità e profitto sia stato rotto, e che le priorità non siano più decise per chi abita queste terre ma per chi le attraversa da turista. 

    Fino a qui, tutto legittimo. 


    Ma è proprio nei momenti di crisi che serve chiarezza e responsabilità, non reazioni emotive o semplificazioni pericolose.

    Il vero nodo, infatti, non è il turista né tantomeno chi ha scelto con rispetto e spirito di integrazione di vivere qui. Prendersela con loro è non solo ingiusto, ma profondamente miope. 

    Se oggi le Canarie sono dipendenti dal turismo è perché, nel corso degli anni, la politica locale – con la complicità o l’indifferenza di buona parte della popolazione – ha costruito un modello economico interamente basato sull’accoglienza di massa, senza mettere in campo meccanismi di compensazione o limiti strutturali. 

    Gli appartamenti sono stati trasformati in alloggi vacanza, le coste cementificate, le attività economiche convertite al solo servizio del visitatore. 

    Nessuno ha imposto tutto ciò dall’esterno. 

    È stato frutto di scelte locali, spesso dettate da interessi a breve termine e da un entusiasmo economico che ora si rivela insostenibile.

    È quindi paradossale – oltre che scorretto – vedere ora additati come capri espiatori proprio coloro che, con i loro investimenti e consumi, hanno contribuito a mantenere in piedi questo fragile equilibrio. 

    Residenti stranieri, turisti abituali, pensionati europei che hanno deciso di trascorrere qui gli ultimi anni della loro vita: davvero vogliamo credere che siano loro i responsabili del degrado ambientale, della speculazione immobiliare o dell’impoverimento sociale? 

    O non sarebbe più corretto chiedersi come mai, per decenni, non si sia fatto nulla per pianificare una crescita equilibrata e sostenibile?

    Le isole hanno bisogno di riforme, non di nemici immaginari. 

    Serve una regolamentazione seria del turismo, un tetto agli affitti brevi, una pianificazione urbanistica attenta all’ambiente e alle esigenze della popolazione residente. 

    Servono incentivi per attività economiche alternative, che rendano il sistema meno dipendente dai flussi stagionali. 

    Ma per costruire questo futuro servono alleanze, non divisioni. 

    È necessario riconoscere che oggi le Canarie sono un mosaico culturale e umano che va oltre la contrapposizione tra “noi” e “loro”.

    Colpire il turista, demonizzare lo straniero o vandalizzare un’auto a noleggio non solo non risolve nulla: è un gesto sterile, che finisce per danneggiare la reputazione internazionale delle isole e, con essa, la stessa economia locale. 

    È già accaduto altrove: le comunità che si chiudono su sé stesse, alimentando rancori e ostilità, finiscono per spegnersi lentamente, vittime del loro stesso isolamento.

    Protestare è un diritto. 

    Chiedere giustizia sociale, equità, tutela del territorio è doveroso. 

    Ma che questa richiesta sia lucida, fondata e rivolta a chi davvero ha avuto – e ha – il potere di decidere. 

    Altrimenti si rischia solo di sprecare energie, allontanare risorse, e trasformare un problema complesso in una guerra tra poveri, in cui tutti perdono.

    di Luca Bertagnon

     

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