Negli anni ’70 le prime esponenti del mondo vip si schierarono a favore del movimento per i diritti delle donne, ripulirono le eredi delle suffragette dell’aura mista di ridicolaggine e pericolosità che attribuiva loro il mondo maschile e il femminismo divenne un fenomeno cool.
Oggi che la mera scelta di un pronome è un’avventura a fronte di 180 e pico generi certificati, qual è il soggetto di un possibile femminismo?
E quel soggetto, che problemi ha?
Che aiuto gli serve?
E se gli serve, esiste una nuova versione di femminismo che si occupa delle sue istanze?
Personalmente vedo nella creazione di microtribù isolate per differenze minime, l’unico scopo di allontanarci dalle aspirazioni universali che rendono le persone forti e generose e accendono le rivoluzioni.
Consideriamo, intanto, come soggetto di un possibile femminismo di base, il primo, il più antico.
La madre procreatrice che deve tirar su una famiglia, mettere un pranzo a tavola, garantire vestiti stirati nell’armadio e, se avanza tempo, coltivare un sogno o un’ambizione, l’eterno femminino all’ombra delle vite altrui.
Il colpo di genio del neoliberismo è stato appropriarsi del campo semantico progressista e avvelenarne il senso.
Usa le parole dei paladini della libertà per dire altro e va nella direzione opposta come il pifferaio che conduceva i topolini al fiume, per affogarli.
La società moderna è la sintesi riuscita di un furto semantico, tende a chiudere ogni persona in una gabbia molto personalizzata, così personalizzata da sembrare un cappottino ed essere indossata volontariamente e con orgoglio.
Il progressismo woke non è l’avversario del neoliberismo, è la sua pelle d’agnello.
Essere dall’altra parte del potere costituito oggi non è più pericoloso, oggi fa figo.
Il binomio spinoso lavoro-famiglia delle piccole vite, quelle che non fanno figo, resta invece una ferita aperta di una civiltà mutilata.
Mentre artisti più ignoranti che miliardari declamano frasi fatte con sguardo severo, per le madri di ceto medio è semplicemente incompatibile crescere una famiglia e avere il pane a tavola, perché la rete del trapezista di una politica di sostegno, non c’era e non c’è.
La donna socialmente forte cade nella trappola neoliberista che riduce il significato della parola successo all’essere un capitale umano che si spreme volontariamente al massimo, per adeguarsi alle esigenze del mercato.
Sfugge alle mansioni domestiche sottopagando altre donne, in condizioni economiche incompatibili con i sogni, che perpetuano la falsa emancipazione senza gioia delle loro datrici di lavoro.
La nuova emancipazione non è uno spazio su misura per una creatura intelligente ma anche procreatrice.
Disattendere un ruolo familiare non del tutto delegabile a pagamento è responsabilità sua, paga la carriera con sensi di colpa, mutilando la propria affettività in modo volontario.
“La baby sitter mi costa quanto lo stipendio “, è un calcolo costo-beneficio che non chiama in causa la dimensione morale e affettiva.
E’ un ragionamento in termini di efficienza e di mercato.
“Stronza come un uomo” cantava Roberto Vecchioni in una bellissima canzone sul senso della femminilità.
Era questo che volevamo?
Il grande successo del neoliberismo è escludere dal discorso la possibile critica all’impianto sociale basato sul successo come solo metro di valutazione di una persona.
Il mondo è giusto se aumentano le donne sindaco o le donne direttore di banca?
Se le donne efficienti sul lavoro devono arrangiarsi a essere autosufficienti appena escono dal lavoro?
Se non possono denunciare un maltrattatore perché è lui che paga la retta della scuola?
Se la pena per lo stupro e quella per il furto d’auto si equivalgono?
La società non valora il ruolo della madre, non reputa che meriti un sostegno economico e nemmeno un reinserimento facilitato nel mondo del lavoro, quando quel compito finisce.
Si considera che la rivoluzione femminista è finita e le donne hanno vinto perché la precarietà del lavoro non è più un argomento politico al femminile.
Adesso riguarda tutti.
Però nessuna delle criticità della donna-madre in seno a una società che non ne riconosce il valore intrinseco è stata risolta.
In questo senso credo che il contorcersi del femminismo in un pasticcio folkloristico senza contenuti apra un ventaglio di riflessioni che vertono tutte sullo stesso tema: la causa del malessere in ogni campo è sistemica, ma la soluzione offerta è sempre e solo individuale.
La dimensione politica è estinta e la dimensione morale delle scelte pubbliche non è più parte del discorso sulla felicità.
Anche il femminismo, come un po’ tutti gli ismi che si occupano dell’uomo in quanto tale, è ridotto a un fenomeno meramente estetico e superficiale.
Mentre donne imbarazzanti raggiungono i massimi vertici del potere in tutto il mondo, le donne reali affrontano il deserto normativo che le accoglie quando si scontrano con la vita, disarmate come le loro bisnonne e messe in ombra da una ciurma di culi in primo piano su instagram che, per motivi che mi sfuggono, fanno parte dell’alfabeto del progresso senza vera emancipazione.
Claudia Maria Sini