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    Quanto valgono euro e dollari…?

    Ogni tanto, quando gli eventi me ne danno lo spunto, torno con piacere ad uno degli aspetti più pervasivi della nostra esistenza e che personalmente mi affascina: l’economia, del resto tanto strettamente influenzata dalla politica e che altrettanto profondamente vi influisce.

    Più avanti farò qualche considerazione anche su quest’interazione, ma procediamo con ordine.

    La recente impennata dell’inflazione, che erode il nostro potere d’acquisto (per chi volesse approfondire: dell’inflazione ho parlato dettagliatamente nei numeri dello scorso novembre, dicembre e gennaio di questo giornale) mi dà l’opportunità di tornare al mio argomento preferito, ma stavolta vorrei cambiare angolazione approfondendo un quesito solo apparentemente banale: quanto valgono euro e dollari?

    La risposta che automaticamente sale alla mente è: “valgono quello che puoi comprarci”, ma ponendo la domanda non mi riferivo alla loro capacità d’acquisto, la cui erosione purtroppo constatiamo ogni giorno, bensì alla riflessione se quei foglietti di carta colorata, che continuamente maneggiamo e consegnando i quali a un cassiere ci procuriamo gli oggetti o gli alimenti che desideriamo o di cui abbiamo necessità, abbiano o no di per sé stessi un valore e un potere, e se ce l’hanno da dove provenga.

    Per rispondere alla domanda dobbiamo prima di tutto chiarire il concetto di “moneta”, che è più complesso di quanto appaia a prima vista.

    Quando compriamo gli oggetti o gli alimenti di cui abbiamo desiderio o necessità, possiamo portarceli a casa dando in cambio alla cassa del negozio o del supermercato dei foglietti di carta chiamati “euro”, su cui accanto a dei disegni variopinti di elementi architettonici figura indicato il loro “valore”: 5, 10, 20, 50 o 100 euro (ma potrebbero essere dollari, o qualsiasi altra moneta); però – e rifletterci brevemente è sufficiente per rendercene conto! – questo valore indicato, del tutto arbitrario perché non supportato da nulla di reale, è di molto superiore al valore intrinseco delle banconote, cioè della carta e del colore necessari per la stampa.

    Ne consegue che quei foglietti di carta colorata, dal valore intrinseco praticamente nullo, sono solo uno strumento convenzionale, utile per semplificare gli scambi di beni invece di dover calcolare ogni volta il complesso valore dei baratti tra oggetti o tra prestazioni lavorative; in epoche passate questa funzione di strumento intermediario degli scambi poteva essere svolta ad esempio da animali da allevamento (pecore, polli, cavalli, vacche, ecc.) o più spesso dall’oro… infatti fin dagli albori della storia, per chissà quale motivo, civiltà tra loro lontanissime nello spazio e nel tempo hanno attribuito a questo metallo giallo – che salvo rarissime eccezioni è inutile per usi produttivi o scientifici, ma è ricercato solo per l’ornamentazione – il ruolo di moneta, cioè di strumento intermediario nello scambio di beni.

    Secoli dopo gli Stati adottarono come strumento convenzionale di pagamento la cartamoneta, cioè dei fogli di carta con sopra stampato un valore teorico, garantito però dalla convertibilità in oro se il portatore l’avesse chiesto: in pratica le banconote rappresentavano una certa quantità di oro esigibile in qualsiasi momento, ma senza il fastidio di doversene portare dietro il peso.


    Era il sistema cosiddetto dello standard aureo o gold standard, teorizzato congiuntamente circa 80 anni fa dall’economista statunitense Harry Dexter White e dal suo omologo britannico John Maynard Keynes e ufficializzato nel 1944 nella cittadina statunitense di Bretton Woods durante una conferenza internazionale organizzata dalla neonata ONU mentre in Europa e nel Pacifico ancora infuriava la guerra.

    A Bretton Woods i 730 delegati di 44 Paesi alleati si accordarono sulla creazione del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, organismi tuttora esistenti, e soprattutto assegnarono al dollaro, agganciato all’oro nel rapporto di 35 dollari per un’oncia di metallo, il ruolo di strumento intermediario dei pagamenti internazionali.

    In realtà anche l’accordo di Bretton Woods era una versione edulcorata dello standard aureo puro del passato, in cui la funzione di intermediazione degli scambi era svolta da vere monete d’oro o d’argento, naturalmente di valore variabile a seconda del loro peso; ma nel 1944 queste monete non circolavano più da tempo, essendo state sostituite dalle banconote cartacee, del cui controvalore in oro un qualsiasi portatore poteva teoricamente chiedere la consegna.

    L’accordo di Bretton Woods però tolse ai semplici cittadini anche questa possibilità teorica, riservando alle sole Banche centrali la facoltà di esigere la consegna di oro in cambio di dollari.

    Era un sistema che in parole semplici si può definire dollacentrico, perché tutte le valute – agganciate al dollaro, a sua volta agganciato ad una quantità fissa di oro – dovevano essere convertibili in dollari, moneta in cui – come avviene ancora oggi – dovevano essere contabilizzati i prezzi ed i pagamenti degli scambi commerciali internazionali, comprese le materie prime tra cui il petrolio.

    Ma anche lo standard aureo annacquato di Bretton Woods durò meno di un trentennio: le enormi spese militari degli Stati Uniti, subentrati nel conflitto vietnamita alla Francia – l’ex potenza coloniale sconfitta dall’insurrezione dei Vietcong comunisti sostenuti dalla Cina – ed il programma di riforme sociali denominato Great Society (Grande Società), avviato dal presidente Lyndon Johnson, fecero esplodere la spesa pubblica statunitense, che dovette essere finanziata con la stampa di cartamoneta, rendendo insostenibile il sistema basato sulla facoltà di conversione in oro dei dollari; inevitabilmente, ad agosto del 1971 la rapida erosione delle riserve auree statunitensi costrinse il presidente Richard Nixon a revocare la convertibilità tra il biglietto verde ed il metallo prezioso.

    A dicembre del 1971 il gruppo dei dieci Paesi allora più sviluppati del mondo firmò l’accordo noto come Smithsonian Agreement, che abolì definitivamente il sistema di Bretton Woods, sancì la svalutazione del dollaro e istituì il sistema di fluttuazione dei cambi tra valute, che quindi divennero tutte “monete fiat”.

    Ma cosa significa quest’espressione?

    Ovviamente la parola “fiat” non ha nessun legame con la ex marca automobilistica italiana, oggi parte minoritaria di una multinazionale prevalentemente franco-statunitense con sede in Olanda, bensì è un’espressione latina, il cui significato – “così dev’essere” – sintetizza il potere assoluto dello Stato di imporre a cittadini ed istituzioni il corso forzoso della propria moneta, però non più agganciata a beni e risorse naturali tangibili.

    Dunque una breve riflessione basta a renderci conto della realtà stupefacente in cui oggi viviamo: quelle banconote, che consegniamo al cassiere in cambio degli oggetti o dei cibi che ci portiamo a casa (o il loro equivalente, sottratto tramite un bancomat o una carta di credito dal nostro conto bancario), in realtà sono solo pezzetti di carta che non valgono NULLA e non sono garantiti da nulla di tangibile… in pratica sono carta straccia!

    E perché allora li accettiamo dagli altri in pagamento e gli altri li accettano da noi…?

    La semplicità della risposta è altrettanto stupefacente quanto la constatazione precedente: il motivo è semplicemente la FIDUCIA, di chi li consegna e di chi li accetta, che quei pezzetti di carta colorata saranno accettati in pagamento anche nelle molteplici transazioni commerciali successive; se questa fiducia per qualche motivo venisse meno, la catena del consenso convenzionale si spezzerebbe e nessuno accetterebbe più quei foglietti, considerandoli per quello che oggettivamente sono, ossia carta straccia, e pretenderebbe di essere pagato in oro, o in materie prime come petrolio o gas o palladio o grano o bestiame, o con qualsiasi altro bene tangibile a cui si attribuisca un valore economico concreto.

    È solo e unicamente per questa fiducia che il dollaro continua ad essere accettato come strumento di pagamento degli scambi commerciali internazionali, nonostante il colossale debito interno ed estero degli Stati Uniti; fiducia fondata sulla loro potenza militare e finanziaria, che però non è più assoluta come in passato e che anzi sarà sempre più erosa dall’emergenza sul palcoscenico mondiale di altri Paesi che aspirano quanto meno al ruolo di comprimari o addirittura di nuovi protagonisti assoluti, prima fra tutti la Cina.

    Se ciò avvenisse e si instaurasse la consapevolezza – ed a mio parere perché ciò accada è solo questione di tempo – che gli Stati Uniti NON saranno in grado di pagare ai creditori il proprio enorme debito interno ed estero, e la loro potenza militare e finanziaria non fosse più credibile, e quindi si dissolvesse l’impalpabile elemento della fiducia su cui oggi si basa il potere del dollaro come strumento internazionale di pagamento, e in conclusione il biglietto verde finisse per essere considerato mera carta straccia basata sul nulla di alchimie finanziarie… ne seguirebbe una conflagrazione economica e politica dalle conseguenze inimmaginabili, che verosimilmente si risolverebbe in un conflitto militare planetario da cui nessuna arma – nemmeno la più tremenda – sarebbe esclusa.

    Di questo spostamento degli equilibri già si intravedono i prodromi nella trattativa tra Arabia Saudita (attualmente – finché le conviene – alleato di ferro degli Stati Uniti in Medio Oriente) e Cina, che potrebbe pagare in yuan almeno una parte delle forniture saudite di petrolio, e tra Russia e India, che pagherebbe direttamente in rubli gli approvvigionamenti di gas russo.

    E qui arriviamo al nodo cruciale dell’interazione tra economia e politica: prima la dissennata “pandemia” e poi il dissennato conflitto in Ucraina hanno dato il colpo di grazia al preesistente malessere economico mondiale e particolarmente dei Paesi occidentali, facendone letteralmente esplodere i deficit pubblici.

    Non illudiamoci su come i governi di qualsiasi colore “risolveranno” il problema da loro stessi creato: come spiegavo nei precedenti articoli citati più sopra, l’inflazione riduce il valore reale dei debiti ed è quindi la strada più comoda per i politici inetti – che purtroppo sono la maggioranza – per spendere e spandere arricchendo mercanti d’armi e fabbricanti di farmaci, per poi con un giochino delle tre carte scaricare sui risparmi di una vita dei cittadini, il cui potere d’acquisto ne viene dolosamente e dolorosamente decurtato, l’onere della riduzione del valore reale dell’enorme debito pubblico da essi scioccamente e/o subdolamente creato.

    Il “valore” delle monete “fiat” si basa in pratica solo sul gioco dei cambi derivante dall’interazione tra la speculazione internazionale e il corso forzoso imposto dagli Stati emittenti, le cui economie sono prevalentemente terziarizzate, ossia il cui PIL (prodotto interno lordo) deriva prevalentemente da servizi; mentre il valore delle cosiddette monete-merce si fonda sulla disponibilità di materie prime, di cui citavo prima alcuni esempi: petrolio, gas, grano, metalli rari o preziosi eccetera.

    Infatti il valore di una moneta fiat, slegato da beni e risorse tangibili, dipende dalla politica economica e di bilancio del Paese emittente, che praticando una politica monetaria dissennata – di cui è un esempio l’esplosione del disavanzo pubblico causata dai debiti folli… ooppss, cioè volevo dire dagli “scostamenti di bilancio” oggi tanto spesso in bocca dei nostri politici, e dalla conseguente stampa di carta straccia… ooppss, cioè volevo dire di cartamoneta, per far fronte nell’immediato all’enorme spesa necessaria per fronteggiare emergenze reali o presunte – fa impennare l’inflazione, con le conseguenze già citate sulla vita dei cittadini; ai quali tra l’altro i comuni, in bancarotta per gli astronomici rincari dell’energia, spesso non riescono più a erogare i servizi che la popolazione considera un “diritto” perché ci si è abituata, ma che in realtà sono solo il frutto dei sacrifici di generazioni precedenti, e che se mancano i soldi per pagarli inevitabilmente vengono meno.

    Malauguratamente per noi viviamo in un periodo di grandi transizioni, in cui nuovi attori irrompono sulla scena internazionale aspirando, per la semplice massa della loro popolazione e/o per il possesso di pregiate risorse naturali, ad assumervi il predominio a scapito degli attuali Paesi guida.

    Cina ed India si dividono in parti quasi uguali poco meno del 30% dell’intera popolazione mondiale; la Russia è il terzo Paese al mondo per produzione di energie fossili e dispone delle riserve di gas naturale maggiori del pianeta, degli ottavi giacimenti di petrolio e delle seconde miniere di carbone, cosicché sottrarre queste risorse energetiche al mercato per “punirla” di presunti “cattivi comportamenti” nella migliore delle ipotesi (la peggiore è il loro razionamento o totale mancanza) potrà solo far lievitare i prezzi degli altri venditori, e quindi punire invece prima di tutto gli spocchiosi “castigatori”.

    Il debito pubblico dell’Italia, il cui PIL è all’incirca pari a quello russo (ma con una maggiore componente dei servizi, mentre la Russia ha più materie prime), supera dopo la “pandemia” il 150%, ossia lo Stato italiano spende – anzi come sappiamo spesso sperpera dissennatamente – oltre il 150% dell’intera ricchezza nazionale prodotta in un anno, mentre il debito pubblico russo è appena il 18% (diciotto!) del suo PIL… cioè la spesa pubblica della “corrotta Russia degli oligarchi”, come ad alcuni piace chiosare, è pari a solo il 18% della ricchezza nazionale prodotta, invece del 150% dell’Italia.

    Il conflitto tra Russia e Ucraina, produttrici rispettivamente del 21% e del 10% delle esportazioni mondiali di grano ora bloccate dalla guerra, innescherà sicuramente una crisi alimentare globale, che causerà gravissime turbative in tutto il mondo e accelererà ulteriormente l’inflazione.

    Si può dunque ragionevolmente ipotizzare che per tutti questi motivi i vincitori del nuovo ordine mondiale potrebbero essere diversi da quelli immaginati dagli apprendisti stregoni e dissennati fomentatori delle recenti crisi. Ma chiunque sia il vincitore, il perdente sarà – beninteso per propria colpa – sempre l’Unione europea, specchio fedele dei suoi popoli logorroici e inetti, e secondo l’icastica espressione manzoniana ormai vaso di terracotta destinato ad essere frantumato in mille cocci dall’urto tra i vecchi e i nuovi vasi di ferro, in mezzo ai quali scioccamente ha voluto cacciarsi.

    Francesco D’Alessandro

     

     

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