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    Mediterraneo incandescente

    Il 2 ottobre 1911 – 109 anni fa proprio di questi giorni – l’ammiraglio Luigi Faravelli, comandante della flotta italiana schierata dinanzi al porto libico di Tripoli, intimò la resa alla guarnigione turca che presidiava la città. Avendo i turchi respinto l’intimazione, il giorno dopo le navi italiane iniziarono il bombardamento dei forti ottomani, la cui debole reazione permise ai marinai italiani, comandati dal capitano di vascello Umberto Cagni, di occuparli senza sforzo.

    L’11 ottobre, trasportati dalle navi Verona e America e dall’incrociatore Varese, giunsero a rinforzo degli italiani i 5.000 soldati dell’84º reggimento di fanteria “Venezia”, di due battaglioni del 40º reggimento di fanteria “Bologna” e di un battaglione dell’11º reggimento bersaglieri, che il giorno seguente, col sostegno di altre truppe sopraggiunte poco dopo, occuparono definitivamente Tripoli.

    Per intensificare la pressione sulla Turchia e forzarla ad abbandonare la Libia, l’Italia attaccò anche nel Mare Egeo: nella notte tra il 17 ed il 18 aprile 2012 marinai italiani tagliarono i cavi telegrafici che collegavano al continente asiatico le isole di Imbro e Lemno e il 28 aprile fu creata una testa di ponte nell’isola di Stampalia, da dove il 4 maggio 8.000 soldati del Regio Esercito sbarcarono nella baia di Kalitea, a circa 10 km dalla capitale dell’isola oggi greca di Rodi, la cui guarnigione turca si arrese il giorno dopo.

    La guerra italo-turca si chiuse ufficialmente con il Trattato di Losanna del 18 ottobre 1912 tra l’Impero ottomano ed il Regno d’Italia, che si annesse la Libia e le isole egee del Dodecaneso.

    Tutto ciò, come dicevo, avvenne proprio di questi giorni poco più di un secolo fa…

    109 anni dopo, come sappiamo, la situazione è radicalmente mutata: mentre l’Italia è occupatissima a requisire navi per ricoverarvi in quarantena centinaia di “migranti” in attesa di essere trasportati negli alloggi loro destinati in terraferma, l’esercito e la marina turchi imperversano nel Mediterraneo dalla Libia al Mare Egeo.

    Nel discorso pronunciato il 30 agosto per celebrare il 98° anniversario della battaglia di Dumlupinar, con cui nel 1922 i turchi iniziarono la riconquista dell’Anatolia invasa dai greci, il presidente Erdogan non ha misurato le parole, promettendo per il 2023, anno del centenario della fondazione della moderna repubblica turca, il ritorno del Paese allo status di grande potenza.

    Gli obiettivi dichiarati sono principalmente tre: diventare una delle prime dieci economie mondiali, raddoppiare il PIL e conquistarsi un ruolo di primo piano nella politica internazionale.


    La complessità e l’intersecazione degli scenari non facilitano un’esposizione ordinata degli scacchieri dell’attivismo turco, ma cominciamo da quello più vicino: la Libia, il cui petrolio è un’esca golosissima per i pescecani di varia grandezza che vorrebbero accaparrarselo.

    Dopo la morte violenta di Muhammad Gheddafi e la susseguente guerra civile, il controllo della Libia ora è conteso tra i suoi due uomini forti: il presidente del Governo di Accordo Nazionale Fayez al-Sarraj, sostenuto principalmente dalla Turchia e dal Qatar (entrambi sponsor dell’organizzazione islamista dei Fratelli Musulmani), e il generale Khalifa Haftar, il cui principale alleato è l’Egitto guidato dal generale al-Sisi, invece nemico acerrimo dei Fratelli Musulmani e sostenuto anche dalla Russia e dai finanziamenti sauditi.

    L’accordo firmato a Tripoli lo scorso 17 agosto dal ministro della difesa turco Halusi Akar, da quello del Qatar Khalid al-Attyha e da al-Sarraj concede per 99 anni l’uso di un’area del porto di al-Khums e della base aerea di al-Watya rispettivamente alla marina e all’aviazione militare turca.

    L’Italia, riluttante a sporcarsi gli scarponi militarmente, aveva aperto un ospedale da campo nella vicina città di Misurata, ma recentemente è stata “invitata” a sgombrare per lasciare il posto a una base militare turca; in cambio al-Sarraj ha proposto al ministro della difesa Guerini di affidare a militari italiani il pericoloso compito della “bonifica e sminamento di ordigni”… così i veicoli militari turchi non avranno più nemmeno questo fastidio. Geniale!

    Come nel 1912, ma a rapporti di forza invertiti tra il moribondo Impero Ottomano di allora e la rampante Turchia odierna di Erdogan, l’altro teatro operativo dell’attivismo turco è il Mediterraneo orientale, ossia il Mare Egeo. Ricordiamo anzitutto quattro circostanze significative: la Turchia è militarmente alleata, nell’ambito della NATO di cui fa parte, di 22 Paesi dell’Unione europea, tra cui l’Italia e la Grecia; le forze armate turche, con 350.000 effettivi, sono le seconde più numerose della NATO dopo quelle degli Stati Uniti; con 83 milioni di abitanti la Turchia è uno dei Paesi più popolosi del Mediterraneo e si potrebbe dire anche d’Europa, dato che parte del suo territorio e più dell’11% della sua popolazione si trovano nel continente europeo; e infine, dell’UE – sebbene il suo territorio sia interamente in Asia, vicino alla costa turca in un’area ricca di risorse naturali – fa parte anche Cipro, che dal 1974, quando la Turchia ne invase la regione settentrionale, è diviso in due aree segregate, controllate rispettivamente dall’etnia greca e da quella turca.

    Fatte queste premesse per chiarire il contesto, ricordiamo l’episodio della nave Saipem 12000 dell’ENI, che a metà febbraio 2018, mentre si accingeva a iniziare delle trivellazioni nelle acque della ZEE (Zona Economica Esclusiva) di Cipro, rimase bloccata per cinque giorni da navi militari turche e infine dovette ubbidire alla loro intimazione di ritirarsi.

    Reazioni dell’Italia e dell’UE?

    Nessuna, nemmeno verbale!

    Un importante fattore da considerare sono le spinose relazioni storiche tra Turchia e Grecia, quest’ultima appartenente per secoli all’Impero Ottomano, da cui si liberò nel 1830 in una dura guerra d’indipendenza.

    All’inizio del secolo scorso, nell’arco di meno di 30 anni i due vicini si sono combattuti quattro volte: nella prima guerra greco-turca (1897), nella guerra balcanica del 1912-1913, nel primo conflitto mondiale (1914-1918) e nella seconda guerra greco-turca del 1919-1922.

    Basta guardare la carta geografica per rendersi conto della situazione potenzialmente esplosiva tra due Paesi ostili: i circa 200-300 km di Mare Egeo, che a seconda della latitudine separano la terraferma greca da quella turca, sono costellati da una moltitudine di isole greche, alcune delle quali abbastanza grandi e collocate proprio a ridosso della costa turca, che quindi con grande insofferenza della Turchia rendono il Mare Egeo praticamente un lago greco.

    Lo scorso agosto Grecia ed Egitto, in evidente contrapposizione all’intesa tra Turchia e il governo libico di al-Sarraj, hanno siglato “un accordo di delimitazione delle frontiere marittime” tra i due Stati che crea una loro “zona economica esclusiva”; nella successiva conferenza stampa congiunta i ministri degli Esteri greco ed egiziano hanno sottolineato che l’accordo “riflette le relazioni privilegiate tra i due Paesi e permette di sfruttare le risorse energetiche dell’area”, da esportare in Europa con un gasdotto di 1.200 km attraverso il Mediterraneo.

    Il progetto, che prevede la compartecipazione di Cipro, Grecia, Israele ed Egitto – tutti avversari geopolitici della Turchia – naturalmente è visto come il fumo negli occhi da Erdogan: immediatamente dopo la firma dell’accordo tra Grecia ed Egitto, i turchi hanno inviato nell’area contesa, al largo dell’isola oggi greca di Kastellorizo (in italiano Castelrosso, strappata dall’Italia alla Turchia nella guerra del 1912 e distante meno di 3 km. dalla costa turca), la nave oceanografica Oruç Reis, scortata da cinque vascelli militari.

    La Grecia ha risposto inviando nell’area la fregata Limnos, che a quanto pare (sia i greci che i turchi sono riluttanti a chiarire le circostanze) ha dovuto ritirarsi dopo essere stata speronata dalla fregata turca Kemal Reis.

    Dal 26 al 28 agosto si è svolta a sud di Cipro, di fronte alla costa turca, l’esercitazione navale congiunta tra Cipro, Grecia, Francia e Italia, la quale ultima però per non irritare i turchi ha effettuato una breve manovra congiunta anche con loro navi.

    Intanto i ministri della Difesa cipriota Angelides e francese Parly hanno firmato un accordo che consentirà alla Marina francese l’uso della base navale di Mari, sulla costa meridionale dell’isola… tutti atti velatamente ostili, ricordo ancora, tra Paesi formalmente alleati nell’ambito della NATO, in un’area in cui recentemente si è affacciata in forze anche la Marina della Russia, già da tempo ai ferri corti con la Turchia in Siria per il sostegno militare prestato al presidente Assad contro i ribelli siriani e ora sua avversaria anche in Libia.

    Sicuramente non è un caso nemmeno la recentissima sospensione per un anno (rinnovabile annualmente) dell’embargo statunitense delle vendite di armi a Cipro deciso nel 1987, con l’aggiunta della precisazione del Segretario di Stato Mike Pompeo che gli USA vedono con favore la riunificazione dell’isola sotto un solo governo.

    Chiudiamo l’esposizione forzatamente incompleta di quest’intricatissimo scenario con la questione dei cosiddetti “migranti” asiatici (afghani, cingalesi, indiani, iracheni, pachistani, siriani e altri), che la Turchia finora ha trattenuto sul suo territorio in cambio di 6 miliardi di euro sborsati dall’Unione europea: una scelta a mio parere gravemente errata, perché chi paga il pizzo per assicurarsi “protezione” si espone al ricatto costante e all’esosità di chi gliela “concede”… e difatti alla fine dello scorso febbraio, proprio mentre stava esplodendo la cosiddetta “pandemia”, Erdogan – forse irritato per l’uccisione di 36 soldati turchi a Idlib, in Siria – ha annunciato di avere spalancato il confine ai “migranti” intenzionati a entrare nell’UE: vittima predestinata la Grecia, il cui confine con la Turchia, marcato da boschi spopolati e dal fiume Evros, si estende per 120 km.

    Ma dopo l’ipocrita visitina di facciata del trio europeo Sassoli – Michel – von der Leyen al confine tra UE e Turchia, la Grecia praticamente è stata abbandonata a se stessa e si è intensificato il flusso di “migranti” anche verso l’isola greca di Lesbo, dove all’inizio di settembre ci sono state proteste e disordini della popolazione esausta per l’afflusso di “migranti” che soffre da anni.

    Intanto l’Unione europea subisce inerte il ricatto migratorio di Erdogan e verosimilmente per questo Grecia e Cipro si rivolgono per sostegno direttamente alla Francia, che cerca di ritagliarsi uno spazio anche in quest’area probabilmente contando sul suo esercito, che dopo l’ormai imminente Brexit resterà il più potente e il meglio organizzato dell’UE… e anche l’unico in possesso dell’arma atomica.

    Oggi, come 109 anni fa proprio di questi giorni, il Mediterraneo ribolle di ambizioni e interessi difficilmente conciliabili e che come allora, seppure nella diversità dei tempi e dei rapporti di forza tra i protagonisti, potrebbero avere conseguenze gravissime e imprevedibili.

    E ovviamente chi ci rimetterà saranno i “vasi di coccio in mezzo ai vasi di ferro”, come Manzoni definì Don Abbondio, che non volendo compromettersi cercava di accontentare tutti tenendo il piede in quante più scarpe possibili.

    Francesco D’Alessandro

     

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