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    Omarello… di Davide Selis luglio 2017

    Foto di Cristiano Collina

    Riecco l’Omarello: …Tenterò di spiegarmi la tranquillità dell’oceano nella zona costiera che si estende tra Los Cristianos e Costa Adeje, e non avendo i mezzi per dare una risposta scientifica al quesito, ripiegherò su tutt’altra interpretazione. La stupenda lezione di Augusto Comte sulla storia della scienza, ci insegna infatti che prima di pervenire alle leggi scientifiche, è necessario che l’uomo ancora ignorante passi per due fasi antecedenti: lo stadio teologico e lo stadio metafisico. Io faccio dunque il mio dovere: essendo ancora troppo acerbo e non informato, per potermi rappresentare scientificamente la calma del moto ondoso verso determinate coste, ricorrerò ad una spiegazione “teologica” (ovvero attribuirò un fenomeno naturale ad entità soprannaturali): l’Atlantico a Costa Adeje è tranquillo, perché teme Bina Bianchini (che forse lo ha “messo in riga”, forse lo ha educato, forse lo ha sculacciato); a Puerto de la Cruz invece l’Atlantico mostra i muscoli, intimorisce la gente e “fa il bullo”, perché Beatrice Vitti-Dini glielo permette.

    Così fantasticando, rientro a Santa Cruz in torpedone, e nei giorni successivi, prima di concludere la mia permanenza a Tenerife, compio le ultime visite all’incantevole Puerto de la Cruz. Fin dai primi approcci questa cittadina mi aveva ben disposto, per i bei panorami, le tracce di storia e di civiltà, la popolazione accogliente, i punti di ristoro; ed anche per certi fattori che possono sembrare negativi o pesanti, come la varietà del clima e la sua freschezza, che d’inverno può significare freddo (e dunque abbigliamento più pesante e meno vita di spiaggia). Quanto all’ultimo punto, ho detto nelle puntate precedenti che la ricchezza degli stimoli è un antidoto prezioso al senso di solitudine. Da quando sono tornato “single” o “soltero”, essendo terminata la mia intensa relazione affettiva per delle incompatibilità emerse in ritardo, ho recuperato una dimensione a me cara, quella della solitudine, alla quale un certo destino mi aveva allenato per lunghi periodi della vita. La solitudine: vi è chi la teme, perfino al punto da non poter consumare i pasti se non in compagnia, vi è chi la sopporta ma preferisce evitarla, e vi è chi la ama e la ricerca. Io appartengo a quest’ultima tipologia di esseri umani, e per esperienza diretta, e per aver raccolto le confidenze di persone simili a me, posso dire che ben poche volte i “ lupi solitari” come il sottoscritto, soffrono perché si sentono soli. Questo può succedere in determinate circostanze, come le feste di Natale, in cui tutti gli altri appaiono riuniti in gruppi, e confortati da caldi focolari di affetti. Per molti anni della mia vita bolognese mi ero premunito ed organizzato per evitare un penoso senso di privazione in queste ricorrenze, e fruivo della ospitalità calda e delle premure di famiglie di amici.

    Volendo trasferirmi alle Canarie, e senza più Claudia al mio fianco, aspettavo con timore e con un filo di angoscia le prime festività natalizie. Non sapevo ancora che fra gli italiani trasferitisi al Puerto avrei trovato formidabili nuovi amici ospitanti, i quali avrebbero preso ad amarmi gratuitamente, e a sopperire ai miei bisogni senza che io dovessi chiedere nulla, né tanto meno cercare compassione. Ma se quegli uomini che ho appellato “lupi solitari”, al cui novero io appartengo, non temono quasi mai la solitudine, questo non significa che il problema in esame per loro non si ponga. Infatti la natura umana è uguale per tutti, nei tratti di fondo: tutti siamo costitutivamente fatti per l’amore, ovvero per l’altro-da-noi, ovvero per socializzare. Un “lupo solitario” ha imparato a farsi compagnia anche con un orologio da parete e con la varietà del paesaggio che lo circonda; più o meno, questo scrissi in una puntata precedente, ed ora aggiungo: con la varietà del clima. L’orologio e le variazioni paesaggistiche e climatiche sono come diversi interlocutori, che qualcosa ti dicono. Una variazione del cielo, quando si rannuvola all’improvviso, o sopraggiunge una tenue pioggia o un temporale, è come un amico che ti rievoca episodi del tuo passato o ti racconta una nuova avventura: stimola la tua fantasia e la tua reminiscenza, e non ti senti più solo, il tuo vuoto esistenziale è riempito o coperto. La stessa funzione svolge il grattacielo Bel Air a Puerto de la Cruz, come già scrissi. Esteticamente è come un pugno in un occhio, e chi mai si sente solo quando riceve un pugno? Gli alberghi di Puerto de la Cruz, e gli ex alberghi divenuti condomini di appartamenti, sono in gran parte “kitsch” come il grattacielo Bel Air, e dunque mi promettevano, durante le mie visite di primo accostamento a quella realtà, che avrebbero svolto per me la stessa, preziosa, salvifica funzione del “pugno in un occhio”. La parte storica della cittadina, invece mi incantava. Con quelle deliziose casette piccole e variopinte che mi ricordavano le costruzioni fatte con il “lego” quando ero fanciullo, oppure le fiabe di quando ero ancora più piccolo: in entrambi i casi al motivo della varietà di linguaggio si aggiungeva quello della riemersione delle età più tenere, con tutta la carica di dolcezza che questo comporta. Ed inoltre: le casette dell’antico borgo dei pescatori hanno tutte uno stesso stile, lo stile canario che io non so interpretare perché sono incolto, ma che qualcosa mi dice ugualmente, e mi fa l’effetto di un interlocutore che mi stia parlando in una lingua a me sconosciuta: potrò sentirmi frustrato, ma di certo non mi sentirò solo, durante un simile impossibile dialogo.

    Passeggiando per la parte più antica della città, durante le mie visite di esplorazione ero solito concedermi un caffè seduto al tavolino di un bar, per ricaricarmi e per avere occasioni di dialogo e poter familiarizzare con la gente del luogo. Nell’ultima visita che feci al Puerto prima di ripartire in volo da Santa Cruz a Bologna, passeggiando a zonzo e alla cieca… mi imbatto in un locale invitante e accogliente, dalla sobria eleganza. Leggo l’insegna, che più o meno recita “caffè pizzeria Amanusa – cucina italiana” e capisco al volo che quel bel localino può essere per me una risorsa; ma non so ancora che sarebbe diventato un punto fermo della mia nuova vita.

    Mi ci tuffo, ovvero mi siedo ad un tavolino all’aperto, e presto giunge il cameriere a servirmi. E’ spagnolo, e questo non mi dispiace perché posso esercitarmi con lui nella mia nuova lingua, nella quale sono ancora molto debole. Il ragazzo a sorpresa mi fa i complimenti per come parlo la sua lingua, e per il fatto stesso che la parli, perché, mi spiega, solitamente gli italiani si esprimono solo nella propria lingua e pretendono di essere capiti. Vengo a sapere da lui che i proprietari del locale sono italiani. Dopo altre chiacchiere ed altre preziose informazioni, si deve allontanare da me per il suo servizio e mi lascia alle mie riflessioni e alla deliziosa contemplazione del traffico pedonale sulla strada che fiancheggia i tavolini. Quando decido di andarmene per riprendere la mia esplorazione del territorio, mi faccio arrecare il conto, ma è un altro cameriere che me lo porta; pago il dovuto a quest’ultimo, mi alzo e per cortesia vado a cercar di salutare il cameriere che mi aveva fatto compagnia, il quale è scomparso all’interno del locale. Entro nella zona coperta, trovo il ragazzo e lo saluto, e mentre ho già girato i tacchi e sto uscendo, una voce femminile angelica e inebriante mi “grida sommessamente” alle spalle: “La aspettiamo…”

    (Continua)

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