
Camminare Tenerife. Non per arrivare, ma per scoprire.
Non per conquistare, ma per ascoltare.
A Tenerife, ogni passo racconta una storia, ogni sentiero svela una verità, ogni mutamento del paesaggio è un pensiero che si fa corpo.
Percorrerla a piedi è come sfogliare un libro antico, odoroso di sale e vento, scritto in molte lingue, alcune ancora vive, altre dimenticate.
È un gesto d’umiltà e di contemplazione, un atto di amore profondo verso un’isola che non si concede tutta in una volta, ma solo a chi sa fermarsi, attendere, osservare.
Le nuvole si attardano sopra la cordigliera di Anaga, vestendo i crinali di umidità e mistero. I burroni affondano come ferite nella terra vulcanica, tra laurisilve primordiali e sentieri sospesi.
I villaggi sembrano aggrappati al passato, con le loro case bianche e i tetti rossi che resistono all’erosione del tempo e del turismo. Ogni curva è una sorpresa, ogni passo una domanda: come può tanta bellezza convivere con tanto isolamento?
Svoltando verso est, il paesaggio cambia come in un sogno che non teme incoerenze.

Lì l’aliseo sferza le colline spoglie, disegnando onde invisibili su campi aridi e pale eoliche.
Brullo, essenziale, quasi lunare: qui l’isola mostra il suo volto più severo, eppure anche più sincero.
I ruderi di fincas abbandonate parlano di un’agricoltura che fu, di un passato in bilico tra orgoglio e abbandono. Qui la natura sembra chiedere meno, ma insegna di più.
Dove l’oro delle spiagge e l’azzurro del cielo attirano frotte di visitatori che cercano, spesso inconsapevolmente, un eden già troppo sfruttato.
Gli hotel si moltiplicano come funghi su terreni una volta fertili, le autostrade serpeggiano tra colate laviche e cartelloni pubblicitari.
È qui che la contraddizione si fa più palpabile: alla ricchezza apparente fa da contraltare l’anima un po’ smarrita del territorio.
Ma anche qui, basta deviare dal tracciato per trovare sentieri che si arrampicano verso picchi desertici, o vecchie case canarie che resistono, testimoni di un tempo in cui tutto era più lento e più vero.
Il cuore pulsante dell’isola, però, è il Teide.
Immenso, silenzioso, sacro. Camminare nel suo Parco Nazionale è come attraversare un altro pianeta: i colori si fanno essenziali, la luce abbagliante, il cielo più vicino.
Qui il tempo perde significato. Si può sostare in silenzio tra le lave rosse e nere, ascoltare il vento che racconta storie antiche di fuoco e di gelo.
È un luogo che plasma lo spirito, che chiede rispetto, che insegna l’insignificanza e la meraviglia.
E tra questi paesaggi tanto diversi, Tenerife parla anche con le sue opere: l’architettura tradizionale delle isole, con i balconi in legno scolpito e le corti nascoste, si alterna alle ferite dell’urbanizzazione rapace, ai condomini disordinati che cancellano l’orizzonte, ai resort costruiti dove un tempo sorgevano alberi di dragonte.
Il suo clima è un dono, un’eterna primavera che consola e seduce.
Ma sotto la superficie si nascondono problemi reali: l’inquinamento delle acque, l’incuria di alcune zone costiere, la pressione antropica che svuota le case dei residenti per affittarle ai turisti e lascia ruderi sventrati a pochi metri dal mare.
Tenerife, percorsa a piedi, mostra tutto questo senza veli.
È un’isola di verità e illusioni, di promesse mantenute e sogni svaniti. Ma proprio questa complessità è la sua forza.
Camminare qui è un atto poetico, un modo per riconnettersi con il ritmo della natura, con il respiro delle cose.
È un pellegrinaggio laico verso la bellezza imperfetta, che solo chi ha tempo — e piedi pazienti — può davvero comprendere.

Solo chi accetta di camminare senza fretta, di guardare da vicino, di perdersi in un dettaglio — una pietra, un muretto, un volto — potrà dire di aver conosciuto Tenerife.
Non da turista, ma da viandante. Non da spettatore, ma da amante.
di Luca Bertagnon