Questa volta la mobilitazione ha coinvolto tutte le capitali dell’arcipelago e si è ripetuta in sette città della penisola: Santiago de Compostela, Bilbao, Pamplona, Granada, Barcellona, Valencia e Madrid, oltre che a Berlino.
L’obiettivo rimane lo stesso: una modifica del modello turistico delle isole.
Un cambiamento di rotta che, secondo i gruppi promotori, deve iniziare con una ridistribuzione della ricchezza generata dai 18 milioni di persone che visitano le isole, risolvere l’emergenza abitativa e porre fine al turismo di massa, che esercita una pressione insostenibile su un territorio fragile e limitato.
Denunciando l’inerzia della classe politica, che durante tutto questo tempo ha affermato di lavorare per soddisfare le richieste dei cittadini, migliaia di canari hanno percorso le strade delle Canarie ritenendo che il governo regionale e le associazioni turistiche continuino a non fare nulla per aumentare la protezione degli spazi naturali, frenare la saturazione turistica e avviare una tassa ecologica di cui «hanno parlato solo negli ultimi giorni» dopo che è stata fissata la data della manifestazione.
Con una partecipazione che la Polizia Nazionale ha stimato in 5.500 persone solo a Las Palmas, la marea di manifestanti è stata numerosa ma con un atteggiamento un po’ meno festoso e rivendicativo rispetto alle due precedenti proteste tenutesi nell’aprile e nell’ottobre 2024, nonostante la partecipazione piuttosto numerosa, superiore alle aspettative.
A Tenerife una protesta seguita da circa 9.000 persone, secondo i dati forniti dalla polizia, e che è stata ancora una volta la più numerosa dell’arcipelago.
A La Palma, circa 600 persone hanno percorso la Calle Real della capitale al ritmo di tamburi, chácaras e bucios chiedendo una soluzione all’emergenza abitativa dell’isola, aggravata dall’eruzione del vulcano Tajogaite nel settembre 2021.
A Valverde, El Hierro, un centinaio di persone si sono radunate davanti al Dipartimento del Turismo del Cabildo per manifestare l’opposizione dei cittadini all’«attuale modello economico insostenibile, basato sul turismo di massa e sulle sue conseguenze».
Ricordiamo che El Hierro ha seri problemi con l’immigrazione, non sanno più dove metterli!
A La Gomera hanno partecipato appena 50 persone.
“Ci stanno lasciando senza casa nella nostra terra, non siamo un set per turisti” o “Le Canarie hanno un limite e anche la pazienza della sua gente”.
Frasi che hanno poco senso dopo che proprio loro i canari hanno venduto tutto, terre, case, appartamenti, fincas e garages, hanno usato i soldi come volevano legittimamente, ma ora?
Le Canarie bruciano, non per il sole, ma per la crescente tensione sociale intorno al turismo.
Manifestazioni, scritte sui muri, grida di “Le Canarie non si vendono!” e accesi dibattiti riflettono una realtà complessa: la turismofobia ha smesso di essere un fenomeno marginale per diventare il fulcro del dibattito politico, economico e territoriale dell’arcipelago.
Ma al di là del clamore, sorge una domanda inevitabile: chi beneficia realmente di questo clima di rifiuto?
Il clamore che fa comodo a molti
Lungi dall’essere un movimento univoco o spontaneo, la turismofobia, nella sua espressione più radicale o nella sua forma latente, è diventata un’opportunità per molteplici attori.
Dai fondi di investimento che aspettano l’esaurimento del modello attuale per imporne uno più esclusivo, ai partiti politici che capitalizzano il malcontento per conquistare il potere locale.
Fondi avvoltoi e promotori del lusso
Con l’aumentare della pressione dei residenti contro le case vacanza e la saturazione alberghiera, i grandi proprietari terrieri vedono nella turismofobia una leva utile.
Sostengono che il turismo di massa non è più sostenibile e promuovono invece modelli a bassa densità e alta redditività: urbanizzazioni chiuse, turismo medico, senior living o resort di lusso con un maggiore valore aggiunto per visitatore.
“Se la gente non vuole turismo a basso costo, perfetto. Abbiamo un piano B per vendere esclusività, privacy e redditività a lungo termine”, afferma un promotore legato a progetti nel sud di Tenerife.
L’indignazione dei residenti è un capitale politico.
Alcuni partiti a livello isolano o statale hanno fatto della critica al modello turistico la loro bandiera principale, avvicinandosi a gruppi sociali, di quartiere e ambientalisti che chiedono un cambiamento.
Nelle elezioni locali, questo discorso ha già dato i suoi frutti in comuni come Arona, Teguise o persino Mogán, dove prima regnavano maggioranze intoccabili.
Ma non tutti i discorsi sono innocenti. In alcuni casi, la difesa del territorio si mescola al populismo, al protezionismo e persino alla xenofobia, in un cocktail che rischia di snaturare il dibattito.
Paradossalmente, anche il settore turistico trova opportunità nella crisi di immagine.
Tour operator, agenzie e startup hanno iniziato a vendere le Canarie come una destinazione “in transizione”, ideale per turisti consapevoli, nomadi digitali o viaggiatori di lusso in cerca di esperienze autentiche.
Meno turisti, ma più redditizi. Questo è il nuovo mantra.
Nel frattempo, destinazioni rivali come la Turchia, la Grecia, l’Egitto o Capo Verde osservano con attenzione.
Le proteste alle Canarie, le immagini di spiagge affollate e le tensioni con i residenti servono da munizioni per promuovere se stessi come destinazioni più accoglienti, economiche o tranquille.
Nel mercato turistico globale, anche il malcontento delle Canarie ha un prezzo.
La turismofobia canalizza frustrazioni legittime: difficoltà di accesso all’alloggio, collasso dei servizi pubblici, salari precari e distruzione del territorio.
Ma se non si traduce in riforme strutturali reali, può finire per essere la scusa perfetta per consentire ai soliti noti – con più capitale, più lobby e più pazienza – di prendere il posto del modello turistico.
Bina Bianchini