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    A 70 anni dal test nucleare nell’atollo di Bikini

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    di Ilaria Vitali

    Era il 26 luglio del 1946, quando l’America fece esplodere il primo ordigno nucleare sott’acqua, nell’atollo di Bikini, uno degli anelli isolati di corallo che compongono le isole Marshall.

    Una bomba di 21 kilotoni, una flotta di navi intorno al luogo dell’esplosione e sei sottomarini nascosti nelle profondità per quella che venne chiamata operazione Crossroads.

    Obiettivo dell’esperimento era di dimostrare che le navi americane erano in grado di resistere ad un attacco nucleare grazie all’avanzata tecnologia di cui erano dotate.

    L’operazione suscitò non poche perplessità negli scienziati nucleari: fino a che punto poteva essere utile un esperimento in mare anziché su terra ferma?

    L’America sfoderava le armi.

    Quando l’ordigno chiamato curiosamente Helen of Bikini, esplose, creò una gigantesca bolla sottomarina composta da gas bollenti che colpì il fondale causando un cratere di 30 piedi di profondità e di 1800 di diametro.


    Nello stesso istante la superficie della laguna esplose in una gigantesca colonna d’acqua in cui 5000 tonnellate d’acqua vennero sparate in aria su un’area di circa mezzo miglio.

    Nei secondi che seguirono, l’onda esplosiva colpì anche la superficie dell’acqua provocando una nube radioattiva condensata che formò un alto fungo nel cielo.

    Questo primo test sottomarino stupì per la potenza della bomba e quanto alle navi che sopravvissero all’esplosione, dopo 2 settimane vennero dichiarate irrecuperabili a causa dell’alto livello di contaminazione.

    Le prime navi a cedere furono la LSM-60 che venne letteralmente polverizzata e di cui vennero trovati solo pochi frammenti.

    Poi fu la volta dell’Arkansas e della chiatta petrolifera YO-160 che affondarono in pochi minuti.

    La portaerei Saratoga impiegò 7 ore e mezzo per colare a picco mentre la Nagato, nave militare sottratta ai giapponesi, affondò 4 giorni più tardi.

    Tre dei sei sottomarini risultarono dispersi.

    Nessuno si rese veramente conto dell’impossibilità di poter salvare le navi superstiti ma quando si tentò di rimorchiarle verso le isole più vicine, il vice ammiraglio dell’equipaggio del rimorchiatore constatò che il livello di radiazioni era di 20 volte superiore al livello considerato letale per ogni forma vivente.

    Gli stessi responsabili della decontaminazione che pensarono di lavare le navi con schiuma e acqua salata, dovettero desistere.

    Le radiazioni si diffusero in tutto il mondo attraverso l’aria, le correnti e le cozze e le alghe che si aggrappavano alle chiglie delle imbarcazioni.

    Così 36 navi contaminate vennero trainate per 200 miglia fino a Kwajalein dove vennero affondate e dove rimasero, nelle profondità, con il loro carico di morte.

    Il secondo test in programma venne annullato ma nel 1995 l’America decise di testare un altro ordigno nucleare sott’acqua nell’operazione Wigwam, a 2000 piedi di profondità e a 500 miglia nautiche a sud ovest di San Diego.

    Nonostante lo scetticismo degli scienziati circa la sicurezza per la popolazione del Messico e per l’ecosistema marino, l’America portò a termine un’operazione nella quale voleva verificare quanto avrebbero potuto resistere gli scafi dei sottomarini di fronte ad un’esplosione di 30 kilotoni.

    Il test andò meglio per l’armata americana, ma fu devastante per l’impatto che provocò.

    Benché le autorità negassero qualsiasi rischio per la vita umana, molti degli uomini che parteciparono all’operazione morirono precocemente di cancro.

    L’America continuò a giocare con le bombe e con la vita di tutti gli esseri viventi, nascondendo poi le briciole sotto al tappeto.

    Ma questa è un’altra storia.

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