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    Una stramberia tutta spagnola

    “I servizi in catalano saranno protetti dalla legge e si eviterà l’ingerenza nelle competenze della Generalitat grazie all’introduzione di una disposizione aggiuntiva in materia”.

    Con queste parole, il 16 settembre 2025, Junts per Catalunya (Insieme per la Catalogna) ha celebrato l’accordo con il PSOE (Partito Socialista Operaio Spagnolo) per introdurre modifiche al disegno di legge che regolamenta i servizi al cliente.

    Questa modifica consentirà “di garantire il diritto dei cittadini a essere serviti in catalano dalle aziende”, secondo i sostenitori di Puigdemont.

    Tuttavia, questa protezione “è irresponsabile e comporterà costi aggiuntivi”, avvertono i dirigenti aziendali.

    Rendere obbligatoria l’assistenza in catalano per tutte le grandi imprese del Paese non è un atto di tutela linguistica, ma un delirio politico che va analizzato punto per punto.

    Una misura che, invece di favorire l’integrazione, rischia di creare nuove divisioni e di pesare inutilmente sull’economia nazionale.

    Il principio di difendere le lingue co-ufficiali può essere condivisibile, ma l’imposizione forzata su scala nazionale appare fuori luogo e scollegata dalla realtà sociale.

    Lingua minoritaria


    Il catalano si parla esclusivamente in Catalogna e in alcune zone limitrofe, eppure si vuole imporlo a livello nazionale come se fosse una lingua universale.

    Si dimentica che la lingua ufficiale e comune a tutti gli spagnoli è il castigliano, che garantisce comprensione immediata ovunque.

    Tutti i catalani lo parlano correttamente, il che dimostra che non esiste un reale problema di comunicazione.

    La misura, quindi, appare più come un gesto simbolico di imposizione che non come una necessità concreta. 

    Una lingua europea mancata

    Non basta tentare di imporre il catalano a livello nazionale, il Governo spagnolo ha presentato il 17 agosto 2023, una richiesta formale al Consiglio dell’UE affinché il catalano diventasse lingua ufficiale europea.

    La proposta è stata discussa il 19 settembre dello stesso anno, ma non ha ottenuto l’unanimità necessaria.

    Il dossier è riemerso anche nel 2025, al Consiglio Affari Generali del 27 maggio e del 18 luglio, finendo però nuovamente rinviato a causa di dubbi giuridici e degli elevati costi di traduzione.

    Un’iniziativa che resta quindi congelata, dimostrando quanto la politica linguistica spagnola possa scivolare sul terreno del simbolico, arrivando sull’orlo del ridicolo pur di inseguire bandiere identitarie invece che soluzioni concrete.

    Sovracosti ingiustificati

    Obbligare aziende con 250 dipendenti o più a mantenere personale, formazione e strutture dedicate a un servizio richiesto solo da una minoranza è pura burocrazia che genera sprechi, un vero colpo di mano autoritario per imporre una lingua marginale, di fatto un delirio assurdo.

    Non si tratta di un piccolo dettaglio: si parla di costi aggiuntivi per call center, sportelli di assistenza, traduzioni, assunzione di personale bilingue e aggiornamento costante dei sistemi.

    Tutto questo graverà inevitabilmente sui bilanci delle imprese, riducendo la loro capacità di investimento e innovazione.

    Alla fine, chi pagherà realmente saranno, come sempre i consumatori, con servizi più cari.

    Competitività ridotta

    In un contesto già gravato da tasse elevate, inflazione e pressione sociale, imporre ulteriori obblighi significa frenare l’economia e ridurre la competitività delle imprese.

    Le aziende straniere potrebbero scoraggiarsi dall’investire in Spagna se vedono crescere vincoli burocratici e costi ingiustificati.

    A lungo termine, questo provvedimento rischia di danneggiare i settori strategici, come il turismo, la tecnologia e i servizi, che vivono di flessibilità e rapidità.

    Un Paese che punta a restare competitivo non può permettersi il lusso di intrappolare le sue imprese in un ginepraio normativo e linguistico.

    Impatto sul mercato del lavoro

    Un aspetto spesso sottovalutato riguarda l’occupazione.

    Se l’obbligo venisse confermato, molte imprese sarebbero costrette ad assumere solo personale in grado di comunicare anche in catalano.

    Questo significa che chi cerca lavoro in tali aziende dovrebbe padroneggiare una lingua minoritaria non necessaria nella vita quotidiana del resto del Paese.

    In pratica, si creerebbe una barriera artificiale che penalizzerebbe i lavoratori qualificati ma privi di conoscenze linguistiche specifiche, riducendo le opportunità e aggravando ulteriormente le distorsioni nel mercato del lavoro.

    Strumentalizzazione politica

    Questa non è una misura pensata per i cittadini, ma un’arma di scambio tra Governo e nazionalisti catalani per blindare accordi di potere e mantenere fragile la stabilità politica.

    Il linguaggio della tutela culturale serve solo come copertura per un calcolo elettorale.

    La difesa delle lingue minoritarie viene trasformata in una bandiera ideologica utile a pochi, mentre il prezzo lo pagano in molti: imprese, lavoratori e cittadini.

    Ancora una volta, la politica dei palazzi dimostra di essere lontana dai bisogni reali della società.

    Il risultato

    Più costi, più burocrazia, meno competitività.

    La difesa delle lingue co-ufficiali non dovrebbe mai trasformarsi in un ricatto politico né in un ostacolo allo sviluppo economico.

    Qui, invece, si supera la soglia del buon senso e si entra pienamente nel campo del delirio normativo.

    La tutela culturale dovrebbe essere un ponte che unisce e arricchisce, non un muro che divide e rallenta.

    Se questa linea verrà confermata, il rischio è di alimentare nuove fratture sociali, di minare la fiducia nelle istituzioni e di aggravare le difficoltà economiche del Paese.

    di Italiano alle Canarie

     

     

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