
Un cambiamento lento ma radicale
I dati demografici raccolti in diverse località costiere come Corralejo, Puerto del Carmen o Puerto Rico confermano che in alcune aree turistiche il peso della popolazione canaria è sceso sotto il 40%, secondo fonti locali e analisi recenti.
Questo non è un dettaglio marginale, ma il segnale evidente di una trasformazione profonda.
In appena vent’anni, l’arcipelago è passato dall’essere terra d’emigrazione a calamita per pensionati europei, investitori, lavoratori precari e turisti di lungo corso.
Il risultato?
Una terra sempre più estranea ai suoi stessi abitanti.
Accanto alla gentrificazione evidente, si sta consolidando anche un’altra realtà meno visibile ma altrettanto incisiva: quella dei nuovi precari stranieri.
Non tutti i nuovi arrivati portano investimenti e capitale.
Molti — soprattutto giovani europei senza mezzi, migranti latinoamericani o africani — finiscono in lavori precari, con paghe basse, contratti assenti e una precarietà esistenziale che si aggiunge a quella abitativa.
Molti di loro operano all’interno dell’economia informale, ovvero in attività non registrate né tutelate, prive di diritti lavorativi e spesso invisibili per lo Stato.
Le Canarie, così, si trasformano non solo in un terreno di conquista per gli investitori, ma anche in un laboratorio di disuguaglianza globale che si riproduce su scala locale.
Il 30% della popolazione non è canaria: la mappa è cambiata
Oggi quasi il 30% dei residenti alle Canarie non ha origini canarie.
Questo dato include sia i cittadini stranieri (circa il 17%), sia i residenti provenienti dalla penisola iberica, che pur essendo cittadini spagnoli, non hanno radici storiche o culturali nell’arcipelago.
La percentuale sale nei comuni costieri, turistici e nelle città principali, dove i flussi migratori hanno ridisegnato la composizione sociale in chiave diseguale.
Due i gruppi principali tra i nuovi arrivati: europei comunitari e latinoamericani, con ruoli, profili e impatti profondamente diversi.
I cittadini europei — britannici, tedeschi, nordici e, sempre più, italiani — dispongono di maggiore potere d’acquisto.
Comprano case, creano imprese, occupano cariche pubbliche e godono di pieni diritti politici locali, incluso il voto alle elezioni comunali, insulari e regionali.
I latinoamericani, pur essendo culturalmente più vicini, finiscono invece nei settori più precari: pulizie, assistenza agli anziani, agricoltura, ristorazione o economia informale.
Molti sono irregolari, senza diritti pieni e costantemente esposti alla vulnerabilità.
Hanno una visione politica conservatrice, spesso alimentata dal disincanto verso i governi dei paesi d’origine, dal peso della religione e dalla paura dell’insicurezza.
Gli italiani: il volto visibile del nuovo spirito imprenditoriale europeo
Negli ultimi anni, la comunità italiana è cresciuta rapidamente nelle isole, con forte presenza a Las Palmas, Puerto del Rosario, Puerto de la Cruz e, in particolare, a Corralejo, che è ormai considerata la nuova roccaforte italiana di Fuerteventura.
La presenza degli italiani è oggi significativa e ben radicata nelle quattro isole maggiori: Lanzarote, Fuerteventura, Gran Canaria e Tenerife.
Il loro profilo è diverso: più giovane, più attivo economicamente, con volontà di radicarsi.
Aprono bar, ristoranti, negozi, agenzie turistiche e immobiliari, spesso pensati per il proprio circuito connazionale.
Hanno portato dinamismo, certo.
Ma anche concorrenza al piccolo commercio locale, gentrificazione e pressione sugli affitti. Nei quartieri dove si concentrano, i prezzi salgono, la lingua cambia, l’identità si diluisce in tempi record.
Questa trasformazione non passa inosservata agli occhi della popolazione locale.
Se da una parte c’è chi riconosce un certo dinamismo economico portato dalla presenza straniera — con nuove attività, più movimento commerciale e un’apparente modernizzazione di alcune zone — dall’altra cresce un malessere collettivo.
Sempre più canari avvertono di essere diventati ospiti in casa propria.
I piccoli commercianti locali faticano a competere con imprese straniere più strutturate, gli affitti aumentano oltre ogni soglia sostenibile e il quartiere in cui sono cresciuti cambia lingua, ritmo e volto.
In molti forum locali, articoli di opinione e conversazioni quotidiane emerge un senso di espropriazione simbolica e materiale, come se la terra d’origine stesse diventando una vetrina per altri, ma non più una casa per chi ci è nato.
Si segnala anche che comunicare nella propria lingua non è sempre automatico: in alcune aree, l’italiano, il tedesco o l’inglese hanno sostituito il castigliano e l’accento canario.
Una parte crescente della popolazione percepisce di essere stata spinta ai margini da un modello di sviluppo che privilegia il forestiero — turista o residente — relegando il canario al ruolo di comparsa in un territorio che non riconosce più come proprio.
La casa come frontiera: chi paga, resta
Mentre le comunità straniere più agiate comprano proprietà o vi speculano, i canari, con i salari tra i più bassi della Spagna, restano esclusi.
I giovani non riescono a emanciparsi, molti emigrano o vivono in condizioni di sovraffollamento.
Trovare un affitto accessibile è diventato un lusso, non un diritto.
Intanto, al loro posto crescono le seconde case per europei, appartamenti vacanza e residenze turistiche.
Si costruisce così una Canarias su misura per il turista e l’investitore.
E chi ci è nato, spesso, non trova più posto.
Folklore da vetrina, silenzio per i canari
Nelle zone più colpite dalla turistificazione, la cultura canaria resiste solo come scenografia.
Un costume tipico per le escursioni, una romería usata come sfondo per selfie, una pietanza locale rivisitata per palati nordici.
Il dialetto si nasconde, l’accento scompare, la musica tradizionale diventa colonna sonora di gite organizzate.
Ma non è solo una questione culturale.
È identitaria.
È politica.
Una comunità che perde le sue radici simboliche perde anche la capacità di immaginare e difendere il proprio futuro.
Il canario spinto ai margini: senza casa, senza potere, senza voce
Il quadro che emerge è quello di una spoliazione collettiva.
Il canario medio ha perso spazio nel mercato del lavoro, nel diritto all’abitare, nella cultura pubblica.
È diventato, progressivamente, una minoranza nel proprio territorio.
Non è un effetto collaterale ma il frutto diretto di un modello economico che privilegia investimenti stranieri, turismo di massa e speculazione, relegando i locali a un’esistenza sempre più precaria e silenziosa.
Quale futuro?
Le Canarie si trovano di fronte a una scelta cruciale: continuare a percorrere la strada di un modello che trasforma il territorio in merce e considera i suoi abitanti un ostacolo, oppure imboccare finalmente una direzione politica coraggiosa che metta al centro il diritto di vivere, decidere e crescere nella propria terra.
Una scelta necessaria, ma che alla luce dei fatti appare sempre più remota.
Difendere l’identità non significa chiudersi alla diversità, ma rifiutare la disuguaglianza strutturale, la turistificazione incontrollata e l’annientamento culturale.
Perché quando un popolo non può più permettersi di vivere nella propria terra e non può nemmeno parlarne con la propria voce, ha già perso la sovranità sul proprio destino.
E allora sì, possiamo dire che il cambiamento in atto non arriva più con le navi cariche di migranti, ma con voli low cost, fondi speculativi e schede elettorali straniere.
L’immigrazione irregolare, pur presente, è un altro discorso: drammatico, marginalizzato, spesso strumentalizzato.
Qui il punto è un altro, ed è ancora più sottile e invasivo: una colonizzazione economica e politica travestita da sviluppo, che penetra legalmente, silenziosamente, ma in modo irreversibile.
Una nuova colonizzazione, silenziosa ma potentissima.
Di Italiano alle Canarie