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    Diario di un difensore dell’ordine

    Questo mese vorrei raccontare cosa accade nei minuti, nelle ore e nei giorni che seguono un’aggressione violenta.

    Perché se l’impatto fisico è immediato e visibile, le conseguenze vere iniziano solo dopo, nel silenzio di uno sguardo vuoto, nel panico di chi non sa da dove cominciare.

    Da quasi un anno mi trovo a coordinare la sicurezza in una struttura sanitaria pubblica.

    Non lavoro come medico, ma sono quotidianamente esposto alle conseguenze del fallimento della sicurezza urbana.

    Ed è lì, in quel limbo post-violenza, che si vede davvero la vulnerabilità umana: turisti che non ricordano nulla, ragazzi che tremano per l’adrenalina, donne che guardano il cellulare che non hanno più, cercando invano un volto familiare.

    Nelle ultime settimane abbiamo assistito a diversi casi emblematici.

    Vittime di aggressioni nella zona della Veronica, arrivate al pronto soccorso con il volto tumefatto, vestiti strappati, e nessun documento.

    Ma soprattutto con nessun riferimento concreto: niente numeri da chiamare, nessun amico al fianco, nessuna certezza su cosa fare dopo.


    E qui comincia il secondo trauma: quello burocratico.

    Serve aprire un expediente sanitario, rilasciare un documento provvisorio utile per il consolato o l’INPS, fornire un referto medico che abbia valore legale.

    Poi c’è la corsa alla denuncia presso la Policía Nacional, spesso complicata dall’assenza di documenti, lingua o lucidità.

    E se la partenza è imminente, servono due fototessere, un permesso di viaggio temporaneo, la pazienza di affrontare l’ignoto con il volto ancora gonfio e il corpo dolorante.

    Tutto questo, in molti casi, accade in meno di sei ore.

    Una vacanza che doveva finire con un cocktail in aeroporto si trasforma in una corsa ad ostacoli tra pronto soccorso, stazioni di polizia e ambasciate.

    E chi non ha alle spalle un sistema di riferimento – amici, parenti, o semplicemente qualcuno che sa come muoversi – spesso crolla.

    Non è raro vedere uomini adulti piangere per non sapere come contattare la propria madre.

    Ragazze spaesate che chiedono dove possono dormire.

    Anziani feriti che non capiscono cosa stia succedendo.

    In quelle ore, la presenza di professionisti della sicurezza privata, del personale sanitario e degli agenti di polizia fa la differenza.

    Ma serve anche qualcosa di più: un piano mentale, una preparazione minima, una consapevolezza che viaggiare non è mai un’azione neutra.

    Chiunque venga a Tenerife – o in qualsiasi altro luogo del mondo – dovrebbe avere copie dei documenti separate, contatti scritti su carta, e un’idea chiara di cosa fare se tutto viene meno.

    È un gesto semplice, ma può fare la differenza tra una disavventura e una tragedia.

    La violenza è un evento.

    Ma il dopo è un processo.

    E troppo spesso, chi sopravvive fisicamente, finisce abbandonato nel labirinto del dopo.

     

     

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