Il presidente statunitense Donald Trump è proprietario di due campi da golf in Scozia, e trovandosi a fine luglio a giocarvi qualche partita in quello di Turnberry, nei pressi della cittadina di Ayr, gli è sembrato opportuno unire l’utile al dilettevole convocandovi i suoi subordinati per comunicargli le sue decisioni; e come conviene a un rapporto tra gerarchicamente disuguali, non li ha convocati nell’Ambasciata del suo Paese, ma significativamente nella sua proprietà privata, come per dire: non fatemi perdere tempo con spostamenti e cerimonie perché ho cose più importanti o piacevoli da fare, per esempio giocare a golf.
E così domenica 27 luglio la presidentessa dell’Unione Europea Ursula von der Leyen e il primo ministro britannico Keir Starmer si sono ligiamente presentati nell’hotel di lusso di Trump attiguo al campo da golf di Turnberry, la prima per adempiervi la formalità di ascoltare ufficialmente la sentenza sui dazi, ovviamente già scritta da tempo, e il secondo per omaggiarvi l’ospite di riguardo nel Regno un tempo colonizzatore e oggi colonia.
Ultimate le 18 buche della partita di golf con la comitiva di amici e familiari tra cui il figlio Eric, scortati lungo il percorso della competizione da una ventina di fuoristrada occupati da guardie del corpo e assistenti, il Presidente si è accomodato con von der Leyen in un salotto dell’hotel per ufficializzare di fronte ai media «l’accordo», non prima di aver commentato incidentalmente di «non essere di buon umore» quel giorno.
Ma prima di proseguire farò un passo indietro per esporre la mia interpretazione delle motivazioni di questa strategia del Presidente, a cui già accennai nell’articolo a pagina 20 del numero di gennaio di questo giornale, dedicato alla “Trumponomics” del Presidente allora appena eletto.
Fin dagli anni ’90 del secolo scorso gli Stati Uniti sono afflitti da un doppio vertiginoso deficit: del saldo commerciale con l’estero (perché importano più di quello che esportano) e del bilancio federale (cioè lo Stato spende più di quello che incassa); il deficit commerciale è anche una conseguenza della progressiva deindustrializzazione degli Stati Uniti, diventati sempre più un’economia di servizi, e del ruolo di moneta mondiale assunto dal dollaro, il cui conseguente apprezzamento nei rapporti valutari rende più conveniente alla popolazione statunitense acquistare manufatti provenienti dall’estero.
Nonostante questi due ingenti deficit gemelli, o twin deficits come li chiamano i tecnici, che avrebbero fortemente pregiudicato la stabilità di qualsiasi altro Paese, finora il predominio planetario statunitense si è sostenuto oltre che sulla potenza militare, ripetutamente impiegata nei decenni in vari continenti per preservarlo (guerre che sono costate e costano somme ingentissime, ma che d’altronde hanno rappresentato e rappresentano un potentissimo volano per la loro industria ed economia), anche sul vantaggio scientifico e tecnologico – che di quella potenza militare è un importante presupposto – e come dicevo poco fa sul ruolo di valuta internazionale espletato dal dollaro; tutti questi fattori di sostegno però sono sempre più insidiati dall’avanzata del cosiddetto “multilateralismo”, cioè in parole semplici dall’emergere di altre potenze economiche, industriali e militari intenzionate a strappare agli Stati Uniti il loro predominio; prima fra tutte le Cina, che come ben sappiamo ha inondato di prodotti tecnologici ed elettronici non solo l’Europa (da lì infatti proviene la maggioranza dei vostri imprescindibili telefonini, che vi tengono perennemente a capo chino), ma anche le Americhe.
Sempre nel numero di gennaio accennavo anche all’esplicita intenzione, ripetutamente espressa in passato dal Vicepresidente Vance, di reindustrializzare gli Stati Uniti; pertanto i dazi imposti al mondo – ma percentualmente differenziati a seconda della «docilità» con cui questo o quel Paese segue le direttive trumpiane – appaiono lo strumento ideale per centrare un triplice obiettivo: perseguire la riduzione del deficit commerciale importando di meno e parallelamente promuovere la progressiva reindustrializzazione del Paese favorendo le aziende nazionali non soggette a dazi e inducendo quelle estere a trasferire in USA le loro produzioni appunto per schivare la sovrattassa; e strada facendo rimpinguare con questo balzello le finanze pubbliche.
Contestualmente all’accordo sui dazi sulle esportazioni dell’Unione Europea in USA, fissati ad “appena” il 15% su tutti i prodotti eccettuati acciaio e alluminio mantenuti al 50%, è stato annunciato l’impegno dell’UE ad importare dagli Stati Uniti in un triennio la colossale cifra di 750 miliardi di dollari di prodotti energetici (a prezzo ovviamente più caro rispetto ad altri fornitori), a investirvi altri 600 miliardi di dollari e ad acquistarvi una quantità imprecisata di armamenti, in parte da girare all’Ucraina e in parte destinati a ricostituire gli arsenali nazionali depauperati dalle ingenti forniture militari già consegnate a quel Paese per procrastinarne la sconfitta nel conflitto con la Russia.
Gli impegni finanziari assunti dall’UE sono talmente colossali e gravosi da far sospettare che gli europei tenteranno in qualche modo di menare il can per l’aia sperando ardentemente che fra tre anni e mezzo una divinità compassionevole sostituisca Trump con un politico di professione, più malleabile perché meno temprato da decenni di aspri negoziati commerciali… e infatti qualche giorno dopo le due parti hanno diffuso testi non coincidenti delle clausole dell’«accordo»; ma all’inizio di agosto il Presidente ha subito messo i puntini sulle «i» minacciando esplicitamente di innalzare ipso facto i dazi al 35% se la furbesca UE non si atterrà alla lettera della versione trumpiana.
E il 4 agosto, infine, con l’annuncio del congelamento per sei mesi dei controdazi europei sulle importazioni dagli Stati Uniti, l’Unione Europea ha ufficializzato il proprio “zzì bbadrone” totale e incondizionato a Trump … poi si vedrà… e non fatico a immaginare come.
Tuttavia non mi unirò alle invettive che – seguendo la nostra ostinata abitudine di addossare sempre a qualcun altro le nostre proprie colpe – alcuni rivolgono a Trump accusandolo di ciò che invece dovrebbero imputare solo a se stessi: infatti dal suo punto di vista, che per lui ovviamente e giustamente è l’unico che conta, Trump sta solo adempiendo il mandato di perseguire l’interesse nazionale conferitogli dal popolo statunitense, cioè esattamente quello che specularmente dovrebbero fare tutti gli amministratori di tutti i Paesi; e se i governanti europei ne sono incapaci la colpa non è di Trump perché sa fare e fa il suo mestiere, ma delle loro popolazioni, che per farsi «governare» non riescono ad esprimere e ad eleggere nulla di meglio di questi/e inetti/e.

