More

    Elon Musk sfida Donald Trump

    Lo scorso venerdì 4 luglio, 249° anniversario della dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti dalla Gran Bretagna, il vulcanico Elon Musk ha sfidato Trump chiedendo agli utenti del suo portale di messaggistica “X” (che come ricorderete è la sua nuova versione di Twitter) se desiderassero una nuova formazione politica capace di opporsi alla coppia di ingombranti dinosauri – il Democratico e il Repubblicano – che da due secoli e mezzo occupano il palcoscenico politico nazionale; e avendone ricevuto 1.250.000 risposte, due terzi delle quali affermative, sabato 5 luglio l’annuncio non si è fatto attendere: il nuovo partito sarà fondato e assumerà – così ha annunciato lo stesso Musk – il magniloquente nome di America Party, equivocando clamorosamente (come già lo stesso Trump con suo Make America Great Again) sulla circostanza che gli Stati Uniti, per quanto massima potenza mondiale, non sono da soli tutta l’America e che in entrambe le Americhe – del Nord e del Sud – esistono anche altri Paesi… ma andiamolo a obiettare a un qualsiasi statunitense…! che ci rivolgerà un’attonita occhiata mista di disprezzo e incredulità per la nostra stupidità.

    Ma chi è Elon Musk, e com’è arrivato a questa decisione, che comunque vada a finire possiamo definire storica? 

    Musk ha 54 anni, essendo nato nel 1971 nella metropoli sudafricana di Pretoria dal cittadino sudafricano di ascendenza britannica Errol Musk e dalla canadese Maye Haldeman, a sua volta figlia di Joshua Norman Haldeman, un controverso personaggio di origine statunitense poi naturalizzato canadese, dapprima militante di un movimento politico chiamato “Tecnocrazia” e poi fondatore del Partito del Credito Sociale, a capo del quale negli anni ’40 del secolo scorso tentò in Canada con poco successo la carriera politica. 

    Elon, appassionato di informatica, da ragazzo aspirava a trasferirsi dal Sudafrica negli Stati Uniti per l’opportunità che quel Paese gli avrebbe offerto di realizzare i suoi progetti, e sapendo che arrivandoci da canadese tutto sarebbe stato molto più semplice, appena maggiorenne assunse la cittadinanza canadese della madre ed emigrò in Canada, da dove spiccò il volo per gli Stati Uniti diventandone cittadino nel 2002. 

    E negli States a Elon le cose sono andate effettivamente molto bene, tanto che la rivista economica Forbes lo ha segnalato come la persona più ricca del mondo, attribuendogli a giugno 2025 un patrimonio di 342 miliardi di dollari… non tutto in denaro naturalmente, ma articolato in una serie impressionante di partecipazioni in aziende di successo, da SpaceX – che a sua volta controlla Starlink, una rete di satelliti per la trasmissione di internet ad alta velocità a tutto il pianeta – a Neuralink ed al creatore di intelligenza artificiale OpenAI, e dal produttore automobilistico Tesla al gioiellino di più recente acquisizione, il già succitato portale di messaggistica “X”. 

    Musk è vulcanico anche nella vita privata, avendo avuto 13 figli accertati e uno presunto da un’ampia serie di mogli e compagne; dalla prima moglie canadese Justine Wilson ebbe un figlio originariamente maschio che si dichiara transgender, si fa chiamare Vivian Jenna e non ha più rapporti col padre, dichiaratamente avverso all’ideologia woke.

    Infatti Musk è politicamente orientato a destra e per questa sua caratteristica, oltre a tutte le sue altre prerogative imprenditoriali ed economiche, non poteva non attirare l’attenzione di Donald Trump, alla cui campagna elettorale contribuì generosamente in termini di impegno e presenza oltre che letteralmente di milioni di dollari; cosicché ad elezione avvenuta Trump inevitabilmente lo coinvolse nel suo programma politico nominandolo capo di un nuovo organismo magniloquentemente denominato D.O.G.E, cioè Department Of Government Efficiency o Dipartimento dell’Efficienza Statale, con l’arduo compito di sfrondare le spese superflue del mastodontico  bilancio federale statunitense … come dire, toh prendi questo cucchiaino bucato e adesso svuota l’oceano. 

    Presto Musk ha dovuto rendersi conto che la missione affidatagli, oltre a essere di per sé ardua, disturbava una miriade di persone ed enti beneficiari diretti e indiretti di quelle spese, che facevano e avrebbero fatto di tutto e di più per seminargli il percorso di nuovi ostacoli oltre a quelli naturalmente esistenti; ma personalmente supporrei anche, tra i motivi della lite, che due galli dalla personalità tanto prorompente difficilmente possano convivere a lungo nello stesso pollaio senza beccarsi… e così dopo appena 4 mesi Musk abbandonò la guida del D.O.G.E., e l’amicizia con Trump è degenerata in aperta ostilità: il Presidente ha addirittura minacciato il poliedrico imprenditore – ovviamente senza nessun fondamento giuridico – di espellerlo in Sudafrica, suo Paese d’origine come ricordavo all’inizio, e Musk ha molto aspramente criticato la legge omnibus pomposamente denominata dal Presidente la Big Beautiful Bill, cioè la Grande Bella Legge, approvata all’inizio di luglio dalla Camera del Rappresentanti con appena 4 voti di margine e il voto contrario di due repubblicani, che però secondo Musk amplierà il già voraginoso deficit federale. 


    A metà luglio poi, a riprova che la sfida si sta incancrenendo e sarà combattuta senza esclusione di colpi, Musk ha sfidato Trump a rendere pubblico l’incartamento del torbido scandalo del finanziere Jeffrey Epstein, accusato di crimini sessuali e suicidatosi in un carcere di New York nel 2019 durante la prima presidenza Trump… ma che secondo una credenza abbastanza diffusa in realtà non si suicidò, bensì “fu suicidato” per impedirgli di citare pubblicamente nell’imminente processo i nomi di influenti politici coinvolti nei suoi traffici sessuali. 

    La base repubblicana del movimento “Make America Great Again” recentemente ha chiesto con grande clamore a Trump di mantenere la promessa fatta in campagna elettorale di chiarire la vicenda, su cui però ora il Presidente “per qualche motivo” – così insinuano malevolmente i suoi detrattori – cerca di glissare, definendola, con la sua usuale veemenza verbale, marginale e inventata, seguito su questa strada dalla Procuratrice Generale, Pam Bondi, che dopo aver dichiarato a febbraio di avere sulla scrivania la lista dei nomi dei coinvolti, ora ha cambiato versione sostenendo di essersi riferita solo all’incartamento in generale. 

    Sicuramente dello scandalo Epstein sentiremo parlare ancora e molto, anche perché ben si presta a essere brandito come clava politica.

    Tutte queste controversie potrebbero favorire l’ascesa dell’America Party di Musk…? 

    Nei decenni passati ci sono stati vari tentativi di incrinare il granitico bipartitismo statunitense, alcuni a destra come il Constitution Party, altri di ispirazione liberista come il Libertarian Party e altri ancora a sinistra come il Green Party, ma nessuno è riuscito a sfondare il muro del duopolio politico profondamente radicato – o incrostato – nel Paese da due secoli abbondanti. 

    Negli Stati Uniti ancora più che altrove per avere successo in politica servono portafogli molto gonfi, e da questo punto di vista Musk è messo non bene ma benissimo, oltre a disporre di un potentissimo megafono come il suo succitato portale di messaggistica “X”. 

    Verosimilmente la strategia iniziale di Musk punterà utilitariamente a concentrare i primi sforzi solo in alcuni Stati che i suoi analisti politici gli suggeriranno come i più propizi, per conquistarvi quei 3 o 4 o 5 storici seggi che gli consentirebbero, dato l’attuale equilibrio parlamentare tra democratici e repubblicani, di diventare – appoggiando ora gli uni e ora gli altri – l’ago della bilancia della politica nazionale, e quindi di far valere un potere contrattuale superiore al dato meramente numerico. 

    Il gravissimo svantaggio di Musk però è il suo difetto congenito di essere nato fuori dagli Stati Uniti e quindi impossibilitato dalla Costituzione a diventarne Presidente; per ovviare a questo peccato originale insanabile e proseguire il suo progetto politico Musk dovrà quindi, se il suo America Party decollerà, attrarre a sé un’altra personalità autorevole e prestigiosa quanto basta per aspirare alla presidenza; e poiché verosimilmente l’America Party sottrarrebbe voti più ai Repubblicani che ai Democratici, la nuova formazione dovrà aspettarsi la feroce opposizione di Trump. 

    Al momento la situazione presenta un interessante ventaglio di variabili: l’eventuale terzo mandato di Trump è tuttora oggetto di cavillose disquisizioni giuridiche sul divieto stabilito dal 22° emendamento della Costituzione promulgato nel 1951, secondo cui “Nessuno potrà essere eletto Presidente più di due volte”, che alcuni intendono riferito a “due volte complessive” e altri a “due volte consecutive”; senza dimenticare che Trump a quasi 80 anni, per quanto ben portati, recentemente ha mostrato una notevole propensione ad accorciare ad appena qualche giorno la nota tendenza dei politici a smentire ripetutamente e disinvoltamente se stessi, suscitando qualche malevola insinuazione che il suo predecessore Biden, di 3 anni più anziano, non fosse l’unico ad aver perso per l’età avanzata l’uso cristallino delle proprie facoltà mentali; e qualche giornalista, notando degli ematomi bluastri sulle mani del Presidente e le sue caviglie gonfie – e certamente Trump, anche se lo volesse, non può condurre uno stile di vita salutista! – ha messo in dubbio anche la sua condizione fisica, costringendo la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, a puntualizzare nella conferenza stampa del 17 luglio, a cui ho assistito in TV, che il Presidente soffre di un’insufficienza venosa nelle gambe e per questo deve assumere dei farmaci che unitamente alle frequenti strette di mani gli causano quei lividi, ma che la sua salute – compresa quella cardiaca, ha precisato Leavitt – è eccellente… tuttavia ricordo che ufficialmente si diceva lo stesso di Biden, di cui a elezione terminata si è saputo che soffre di un aggressivo cancro alla prostata con metastasi ossea, che certamente non era iniziato il giorno prima… insomma, se il presidente di un Paese tanto importante avesse qualche infermità seria, non meraviglierebbe se si cercasse di nasconderla.

    Ricordo per concludere che Trump è in pessimi rapporti non solo con Musk ma anche col governatore della Federal Reserve Jerome Powell, colpevole di non ridurre il tasso d’interesse ufficiale come esige il Presidente e per questo ripetutamente e pesantemente criticato da Trump, tra l’altro con le durissime parole (da me ascoltate in un’intervista) “sarei contento se si dimettesse”, ma che non essendosi dimesso, a quanto si vocifera alla data di consegnare l’articolo addirittura potrebbe essere “dimissionato” anzitempo. 

    E in questo vortice di controversie che si addensano su Trump, il vicepresidente Vance avrà il tempo e il modo di convincere gli elettori statunitensi di essere capace di sostituirlo efficacemente se nel 2028, a 82 anni suonati, per qualche motivo giuridico o di salute il Presidente non potesse ricandidarsi come dichiara di voler fare? 

    Il quadriennio di un presidente statunitense è un mandato breve, poco dopo la metà del quale già si riaccende la campagna elettorale… una situazione così sfaccettata – e non profilandosi per ora nessuna personalità adeguata nel partito Democratico – presenta qualche aspetto favorevole allo sfidante America Party, in uno scontro che nei prossimi mesi sicuramente non ci farà mancare scintille e colpi di scena. 

    L’inusitata prospettiva che anche negli Stati Uniti il bipartitismo potrebbe essere incrinato da un terzo incomodo – e Musk ha sicuramente tutte le qualità personali e finanziarie per dargli una spallata in una società in profonda crisi d’identità – apre scenari politici potenzialmente dirompenti per il Paese, nonostante tutto ancora la maggiore potenza planetaria, e di conseguenza per lo scenario internazionale.

    Francesco D’Alessandro

     

    Articoli correlati