Dal lockdown in poi si sono moltiplicati i casi di ansia e depressione e i numeri ufficiali delle statistiche delle più attendibili pubblicazioni in campo medico stanno muovendo un’onda di interesse mai visto prima verso nuove terapie e nuovi approcci.
Personalmente, sono convinto che le cause di questo incremento senza precedenti abbiano radici principalmente nella sofferenza della società contemporanea ma come medico continuo a valutare tutte le possibili fonti giacché si sa, corpo e anima sono un binomio inscindibile in medicina.
Il dato più allarmante con cui mi confronto ultimamente è l’incremento dell’ansia e la depressione infantile, parliamo di pazienti sotto i 5 anni.
Solo 15 anni fa, di fronte a un mal di stomaco ricorrente sarebbe stato impensabile andare a cercare un possibile collegamento con comportamenti disfunzionali frutto di ansia o depressione.
Almeno non in bimbi che non fossero inseriti in contesti sociali estremamente complessi.
I bimbi che manifestano distacco o disinteresse verso il mondo circostante, associano sintomi come il mal di testa o il mal di stomaco ai momenti di accresciuta aggressività o di isolamento improvviso o si relazionano al pensiero della morte in modo ossessivo e circolare, hanno raggiunto un picco di crescita che merita grande attenzione da parte del mondo medico.
I criteri diagnostici del DMS-5, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali parla di Disturbo Depressivo Maggiore (DDM) sottolineando la facilità con cui può essere confuso con il Disturbo da Deficit di attenzione/iperattività (ADHD) che è un disturbo che riguarda più la capacità di adattamento che la “macchina della felicità“.
A mio avviso si sta verificando un fenomeno che definirei di diagnosi sbrigativa, si diagnostica una sindrome depressiva a volte, quando invece, dividendo i fattori ambientali e quelli da stress occasionale si può risolvere una mera anomalia comportamentale con un approccio cognitivo-comportamentale, ossia intervenendo sulle dinamiche familiari e aiutando il piccolo paziente e la sua famiglia a razionalizzare quegli aspetti della loro relazione che si incagliano in ostacoli rimovibili senza ausilio alcuno di farmaci e dinamiche terapeutiche complesse.
Di fronte a casi di reiterazione di comportamenti di apatia, isolamento, rabbia, disinteresse, pessimismo ossessivo o momentanei black-out della capacità relazionale, allora sì, dobbiamo ammettere che siamo di fronte a una patologia che necessita di un intervento specialistico sempre delicato e attento ma tuttavia profondo.
Personalmente, suggerisco ai genitori dei piccoli pazienti in reale difficoltà, di avvicinarsi alla Play therapy cognitivo comportamentale (CBPT) perché data la materia delicata con cui trattiamo quando si tratta di un bimbo, usare il gioco come veicolo per creare un’alleanza terapeutica non invasiva fra terapeuta e paziente, è la base del rispetto dell’infanzia che deve restare alla base, secondo me, del processo di guarigione.
La terapia cognitivo comportamentale basata sul gioco rinsalda innanzitutto il dialogo genitori figli attraverso il gioco, sotto la guida di personale esperto.
Se vogliamo guardare a questo approccio da un punto di vista più umano e meno professionale, possiamo anche ammettere che se la cura è tornare a giocare in modo sano con i nostri figli, la malattia, con tutte le possibili radici biologiche e ereditarie che certo esistono, è vivere in una società in cui quel particolare tipo di dialogo è sceso sotto il livello della tollerabilità, ed è necessario riportarlo al suo giusto posto.
Dott. Alessandro Longobardi

