Nonostante la crescita economica della Spagna, permangono sfide quali la stagnazione della produttività, l’alto tasso di disoccupazione e la disparità nella distribuzione della ricchezza.
Il Fondo Monetario Internazionale ha parlato questa primavera: la crescita globale sta rallentando.
I motori del mondo si stanno gradualmente spegnendo, con l’Europa in testa al raffreddamento.
Ma in mezzo a questo panorama grigio, la Spagna appare come un’eccezione brillante.
Le previsioni indicano che chiuderà il 2025 con una crescita del 2,6%.
Sono cifre che consentono al governo di vantare una buona salute economica.
Ma dietro lo splendore dei dati sul PIL, ci sono ombre che richiedono uno sguardo più sereno.
I consumi pubblici sono stati il grande motore di questa spinta, insieme all’immigrazione.
Secondo la Banca di Spagna, la spesa pubblica ha rappresentato il 39% e il 27% della crescita nel 2023 e nel 2024.
Allo stesso tempo, il debito pubblico rimane al 101% del PIL: quattro punti in più rispetto a prima della pandemia e 14 punti sopra la media europea.
Si tratta di una crescita robusta, sì, ma finanziata in gran parte a credito.
A questo quadro si aggiunge un paradosso persistente: il PIL cresce, ma la ricchezza di ogni cittadino no.
Il PIL reale (al netto dell’inflazione) pro capite – la misura che dà un nome e un volto alla crescita – è aumentato meno del 10% negli ultimi 16 anni.
La Spagna, la quinta economia dell’UE, si colloca tra il 12° e il 14° posto nella classifica europea per reddito pro capite.
La ricchezza aggregata non è distribuita equamente.
Perché l’occupazione cresce, ma la disoccupazione rimane all’11,3%, la più alta d’Europa.
Tra i giovani e i disoccupati di lunga durata, la situazione è critica.
Il sistema non funziona: un’economia con un’alta immigrazione e un’elevata inattività giovanile; con un eccesso di laureati e una carenza di qualifiche tecniche; con una forte economia sommersa e scarsa mobilità lavorativa.
Il risultato: più occupazione, ma stagnazione della produttività.
La BCE lo dice chiaramente: ci sono più lavoratori, ma non più ricchezza.
Nel 2008 c’erano 19,2 milioni di iscritti alla previdenza sociale; ora sono 21,6 milioni.
Tuttavia, il PIL pro capite rimane bloccato.
La produttività oraria è cresciuta del 20% in 25 anni, lontano dal ritmo di Francia, Germania o persino Italia.
Negli ultimi cinque anni è aumentata appena dello 0,19%.
È il grande collo di bottiglia dell’economia spagnola.
E ora il supervisore avverte che la qualità istituzionale in Spagna è peggiorata negli ultimi 20 anni.
Questa situazione ha effetti concreti.
Le aziende sono riluttanti ad aumentare i salari.
La riduzione dell’orario di lavoro, attualmente in discussione tra sindacati e imprenditori, apre un periodo di incertezza.
In settori come l’ospitalità e la ristorazione, l’adeguamento non sarà facile.
A ciò si aggiunge l’aumento delle assenze ingiustificate o per malattie dal lavoro che stanno creando non pochi problemi anche sul lavoro pubblico e un contesto che riduce il timore di perdere il posto di lavoro.
I fondi europei Next Generation rappresentavano un’opportunità storica per modernizzare il tessuto produttivo, ma non vengono usati costruttivamente.
E la trasformazione non arriva.
Gli investimenti in R&S (ricerca e sviluppo) sono aumentati del 15% nel 2023, raggiungendo l’1,49% del PIL.
Sono ancora lontani dalla media europea del 2,52%.
La Spagna compete sul prezzo, non sul valore aggiunto.
E senza innovazione non è possibile alcun salto di qualità.
A tutto questo si aggiunge la grande angoscia del presente: l’alloggio.
Nel 2024, i prezzi sono aumentati tre volte più dei salari nelle principali città.
La Spagna non è un’eccezione – il problema è globale – ma la mancanza di terreno, la rigidità urbanistica e la lentezza amministrativa aggravano la carenza.
Il controllo dei prezzi divide gli esperti, ma il malcontento è unanime.
Soprattutto nelle zone turistiche il problema dell’alloggio è molto grave, anche perché ci sono molti stranieri arrivati per lavorare nel turismo e che faticano con gli alloggi.
Secondo l’OCSE, la Spagna è il paese in cui più persone dichiarano di essere “molto preoccupate” per trovare o mantenere una casa.
Più ancora che in paesi dove si paga di più per averla.
Questo malessere è quello che fermenta nel malcontento generazionale.
I giovani, intrappolati tra salari bassi e affitti impossibili, sono facile preda dei discorsi che promettono ordine in cambio della (perdita di) libertà.
Nonostante la crescita macroeconomica, la povertà e la disuguaglianza non sono diminuite.
Le banche offrono mutui interessanti, ma non tutti possono permettersi 30 anni di debiti.
In definitiva, la Spagna cresce, ma non avanza.
I salari reali – al netto di tasse, alimenti, energia e alloggio – non migliorano.
La classe media lo nota.
E l’economia ne risente.
La via d’uscita non passa solo attraverso una maggiore crescita, ma anche attraverso una crescita migliore: più produttività, più innovazione, più investimenti e una regolamentazione più agile.
Con lo sguardo rivolto all’agilità degli Stati Uniti, le amministrazioni devono facilitare l’attività degli imprenditori per stimolare la produttività che porterà salari migliori e più benessere alla società.
L’Europa mette i soldi (finché ne avrà).
La sfida è usarli (bene).
Perché, altrimenti, la Spagna che brilla nei grafici continuerà a non brillare nella vita di molti.
Franco Leonardi

