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    Parole di Natale scritte a macchina

    Parafrasando la canzone di Paolo Conte, sceglierei come simbolo natalizio del 2025 la macchina da scrivere Olivetti  che conservo come un oggetto carico di significato personale ma anche storico.

    Da bambini, tutti noi, allungavamo al Signore delle renne ,una sfilza di richieste di cose materiali che la nostra cultura ci ha educato a considerare il by-pass verso stati d’animo di speranza e felicità.

    Aggiungevamo due righe di promesse di maniera e il rito infantile natalizio era compiuto.

    Nel rispetto del Natale di chi crede e di chi no, male non fa fermarsi in modo rituale a commemorare grandi figure del passato che hanno provato a lasciare un’impronta sul nostro modo di essere creature morali, responsabili della storia che ci lasciamo dietro.

    Soprattutto, perché difficilmente scampano al destino di chi inizia bene e finisce male.

    Il disinteresse degli utopisti è una cosa immensamente nobile ma risulta chiaro che non porta fortuna.

    Difficilmente il loro esempio resta in qualcosa di più che la retorica e la sporadica commemorazione di qualche erudito.

    Ora, provando a metterci tutti d’accordo, almeno come italiani, su cosa potremmo chiedere in una ipotetica lettera di Natale collettiva, ho pensato che potremmo chiedere di riavere indietro uomini meno grandi e sicuramente meno “antichi” del titolare unico della notte di Betlemme.


    Potremmo chiedere indietro i grandi utopisti italiani, tutti morti ammazzati, perché dividere pani e i pesci, baciare i piedi dei lebbrosi, prendere a pedate  mercanti del tempio, non era di moda, e non lo è mai diventato.

    Fra tutti, mi piacerebbe scegliere Adriano Olivetti perché ha rappresentato un momento in cui l’Italia poteva davvero diventare grande, buona, orgogliosa di sé, indipendente.

    Dette oggi, sono parole che stanno meglio nel girone dei miracoli che delle promesse, ma grazie a uomini come Olivetti, hanno avuto un breve attimo di realtà che è stata l’occasione mancata di un paese che difficilmente ne avrà un’altra nel tempo delle nostre vite.

    Chi era e perché ha il valore di un regalo di Natale che l’umanità potrebbe chiedere per se stessa, per riaccendere la speranza, che l’uomo sia capace di riscatto in questa vita?

    Olivetti ha scritto una pagina di storia in cui un’impresa italiana si è annessa un colosso americano e non viceversa, riscattando un passato di paese conquistato e calpestato.

    Olivetti credeva nella redistribuzione di certa parte del profitto fra i dipendenti, come forma di prevenzione dell’accumulo esasperatamente asimmetrico di ricchezza.

    Un imprenditore che pensava che aumentare il divario fra ricchi e poveri non fosse un progetto a lungo termine compatibile con la libertà e la felicità, si può considerare un piccolo miracolo no?

    Ci resta un suo studio sul peso politico delle comunità locali, che viene considerato una base concreta per avviare l’Italia a un sistema federale, utile se non indispensabile, per ammortizzare il divario nord sud, per esaltare le potenzialità di un territorio eterogeneo, a vantaggio del paese complessivo.

    Fonda un partito con un solo membro, lui, e nel 1958 viene eletto.

    Un utopista forte della capacità di far vedere alle persone una felicità possibile oltre il limite di ciò che è vietato nel recinto per polli in cui ci invitano a fermare lo sguardo.

    Nell’ieri a cui Olivetti appartiene, la felicità delle persone aveva un posto nella progettualità dei vertici dell’industria.

    Usiamo questa retorica ricorrenza in cui si parla dell’amore per riflettere su un paese che non è stato capace di amare se stesso, un paese che ha ucciso o fatto uccidere tutti gli uomini che hanno cercato di portarlo in alto, di amarlo e renderlo orgoglioso di sé.

    Come è finita l’avventura di un imprenditore allo stesso tempo umano, di successo, leale con il suo paese e generoso con i suoi dipendenti?

    La versione ufficiale di un paese che vietò l’autopsia quando morì durante un viaggio in treno, è infarto cardiaco.

    La versione attendibile di chi ha dedicato anni di studi alla sua figura e alla sua morte, ci racconta di un proiettile di ghiaccio, di produzione cinese, poi presentato con applausi e fanfare dalla CIA, in grado di trapassare la pelle senza lasciare traccia, e sciogliendosi nel cuore, causare un ben preciso tipo di attacco cardiaco.

    Quello che uccise Adriano Olivetti.

    Quindi di cosa è morto alla fine un altro uomo giusto che voleva un mondo migliore?

    Io direi di solitudine.

    Mettiamo sotto l’albero di un amico, di un fratello, di un vicino, il libro di  Pietro Ratti, “Eliminare Olivetti”.

    E’ un libro molto sincero, bello, dovuto, parla di lui ma soprattutto di noi, divisi fra chi lo ha fatto morire e chi è rimasto a guardare mentre accadeva.

    Limitiamoci nel futuro possibile, quello di cui possiamo essere concretamente responsabili, a riconoscere gli uomini eccezionali e non lasciarli morire sempre, a non lasciarli morire sempre soli, per poi dimenticarli in fretta.

    Promettiamo, un Natale di più, di diventare migliori.

    di Claudia Maria Sini

    ([email protected])

     

     

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