Questo mese vorrei affrontare un tema scomodo, che troppo spesso viene evitato per timore di essere fraintesi o etichettati.
Ma chi si occupa di sicurezza, e lo fa osservando ogni giorno le conseguenze concrete della violenza sulle persone, non può più permettersi il lusso del silenzio.
A Tenerife, da mesi ormai, assistiamo a un’escalation di aggressioni, rapine violente, minacce e intimidazioni.
La dinamica è nota, il modus operandi rodato: piccoli gruppi, spesso ben coordinati, individuano una vittima sola, la avvicinano con una provocazione leggera – uno sguardo, una parola, un contatto fisico – e appena arriva una reazione, si scatena l’attacco.
Lo schema è efficace, veloce, brutale.
E chi ne esce vivo, spesso lo fa con il volto tumefatto e la dignità distrutta.
Non sono più solo turisti inesperti a cadere in trappola.
Sempre più spesso si tratta di residenti, di ragazzi dell’isola, di persone che escono per svago o routine.
Eppure, nonostante l’evidenza, il dibattito pubblico rimane bloccato in una forma di tolleranza forzata che, giorno dopo giorno, si sta trasformando in complicità passiva.
C’è un disagio evidente nel nominare le cose.
È come se parlare del profilo culturale e religioso di molti aggressori fosse un tabù.
Eppure, chi lavora in sicurezza, chi coordina interventi sanitari, chi accoglie vittime in lacrime nelle sale d’attesa, lo sa bene: in certi ambienti il valore della vita umana è relativo.
Per alcuni, chi non appartiene alla loro stessa fede o comunità è un infedele.
E con l’infedele – lo dicono certi dogmi estremisti – tutto è permesso.
Chi, come me, ha lavorato anche come ispettore per imprese di sicurezza operanti nei centri di accoglienza, conosce bene la realtà interna a questi contesti.
È sufficiente osservare: migliaia di migranti subsahariani possono essere gestiti con equilibrio e rispetto, ma basta la presenza di 40 o 50 individui di origine magrebina per generare risse, intimidazioni, aggressioni interne.
Non si tratta solo di numeri, ma di atteggiamenti culturali e tensioni etniche o religiose profonde, che esistono anche tra musulmani stessi, se provenienti da fazioni opposte o paesi diversi.
Spesso si entra in Europa non per cercare protezione, ma per approfittare del sistema o, nel peggiore dei casi, con intenti ostili.
Accogliere chi ha davvero bisogno è un dovere umano e sociale.
Ma filtrare chi entra con intenti criminali, estremisti o puramente opportunistici dovrebbe essere un dovere politico e istituzionale.
Altrimenti la solidarietà si trasforma in debolezza, e la convivenza in scontro permanente.
Per anni ho lavorato nel settore alberghiero e privato.
Oggi, da un incarico nella sicurezza sanitaria, vedo gli effetti delle scelte mancate.
Vedo volti aperti a metà, occhi vuoti, viaggi rovinati, vite cambiate per sempre.
Tutto per non aver avuto il coraggio di dire le cose come stanno.
Essere tolleranti non significa chiudere gli occhi.
Significa distinguere il rispetto dalla resa, la giustizia dalla paura, e la convivenza dalla complicità.
Perché continuare a giustificare l’ingiustificabile, alla fine, significa solo accettarlo.

