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    Smart? working

    Negli ultimi anni,  principalmente dopo gli arresti domiciliari su scala planetaria del COVID19, lo smart working ha rivoluzionato il modo in cui molte persone si rapportano al lavoro.

    Potremmo dire che le sartine che cucivano gli abiti per le feste di Versailles nei tuguri in cui vivevano,  al soldo dei grandi sarti di corte, potrebbero chiedere i diritti d’autore, ma sarebbe una polemica sterile seppur non totalmente infondata.

    Sempre più centrale nelle strategie aziendali, il lavoro dinamico e leggero come una decappottabile, ha cambiato profondamente non solo la logistica del lavoro, ma anche le prospettive occupazionali, soprattutto per i giovani

    Flessibilità, autonomia e uso delle tecnologie digitali.

    In giorni di iper individualismo, della fine della tutela del lavoro e della realtà virtuale che ci assedia da ogni lato, niente potrebbe essere più in linea con i tempi.

    Non si tratta semplicemente di lavorare da casa, ma di una riorganizzazione del lavoro orientata ai risultati, più che alla presenza fisica.

    Per le nuove generazioni — cresciute nell’era digitale — questo modello rappresenta spesso un’opportunità: elimina vincoli geografici, riduce i costi di trasporto e alloggio, e consente un miglior equilibrio tra vita privata e lavoro.

    Per le aziende è una lotteria vinta.


    Sotto ogni possibile punto di vista, quella di mio figlio, la numero uno al mondo nel suo settore, ha generosamente concesso tutto Agosto comodamente a casa, incatenati al computer si intende,  a tutti i dipendenti.

    Così facendo, ha risparmiato l’aria condizionata di svariati grattaceli a Barcellona, acqua, luce, pulizie, e ha potuto mandare in ferie il personale ausiliario a uffici chiusi, cosicché, non deve pagare supplenti né farsi carico di rotazioni di turni.

    Gli impiegati invece, hanno guadagnato esattamente lo stesso stipendio, usando i propri condizionatori, luce acqua e cibo di casa propria, accettando un grazie implicito dal capo ufficio di Fantozzi.

    Lo smart working, tuttavia, può favorire l’accesso al lavoro da parte dei giovani in vari modi: accesso a mercati più ampi: un giovane neolaureato che vive in una zona periferica può collaborare con aziende nazionali o internazionali senza doversi trasferire.

    Riduzione delle barriere all’ingresso: molte posizioni remote richiedono competenze digitali e autonomia, qualità già presenti in molti giovani che, per lavorare da remoto non hanno bisogno di troppi titoli accademici, devono dimostrare di saper fare.

    Il lavoro agile si sposa bene con nuovi ruoli come social media manager, sviluppatore web, data analyst e consulente digitale, settori in cui i giovani trovano spesso il primo impiego e che fanno parte del range di interessi della loro generazione ma anche trainer, fisioterapisti, cuochi, studi legali, ormai si avvalgono del lavoro in non-presenza.

    Per giovani con disabilità o difficoltà di mobilità, il lavoro da remoto può essere un’occasione concreta per entrare nel mercato del lavoro.

    Tuttavia, lo smart working non è una panacea.

    Esistono diverse criticità da considerare, in particolare per i giovani all’inizio della carriera:

    Lavorare da remoto può limitare le opportunità di relazionarsi in modo produttivo con altre persone con gli stessi interessi, si perde formazione informale e crescita attraverso il confronto diretto con le persone.

    Molte offerte di lavoro agile per giovani sono in realtà collaborazioni freelance o contratti a progetto, con scarse tutele e compensi non sempre adeguati.

    Ormai si parla apertamente di disparità digitali: non tutti i giovani hanno accesso a connessioni veloci, ambienti adatti o dispositivi adeguati per lavorare da casa in modo efficace.

    Infine, è inevitabile confrontarsi con una pericolosa commistione tra tempi personali e professionali.

    Il rischio non è di mettere la lavatrice mentre si lavora ma di lavorare persino quando si mette la lavatrice.

    Per le donne lavoratrici infine, è una falsa esca il fatto di poter accudire i figli perché la disattenzione di un genitore presente ma impossibilitato ad accudire di fatto, è un grave pericolo per l’equilibrio affettivo dei figli di questa nuova generazione nomade e casalinga allo stesso tempo.

    Per massimizzare i benefici dello smart working per l’occupazione giovanile, sono necessari interventi a più livelli.

    Le aziende devono sviluppare modelli ibridi che garantiscano momenti di socializzazione e formazione in presenza.

    Le istituzioni, e lo diciamo sorridendo amaramente, dovrebbero garantire accesso equo alle tecnologie e tutelare i diritti dei lavoratori digitali.

    Evidentemente, l’intenzione all’origine di questo svincolamento del lavoratore dalla realtà viva dell’azienda, dai suoi colleghi e dal mondo che pulsa colorato e vivo al di là della sua tastiera, non è filantropica.

    Viviamo i tempi che viviamo, non c’è posto alcuno per le illusioni.

    Con l’avvento dell’intelligenza artificiale infine, anche questo settore vedrà alcuni cambiamenti tellurici, perché se da un lato la presenza fisica di un essere umano vero dall’altra parte della tastiera sarà meno imprescindibile, dall’altro sarà complesso per le aziende sapere se l’impiegato muove i tasti del computer, genera contenuto, o sta tirando la palla al cane mentre un complice virtuale gli fa le commissioni.

    Personalmente non amo questo modello di lavoro perché rientra nella spersonalizzazione a 360 gradi che avvolge il nostro essere persone nel mondo globalizzato, ma chi vivrà vedrà, è davvero molto presto per trarre conclusioni drastiche perché tutti gli ingredienti della ricetta “smart” sono in fase di velocissima evoluzione ed è davvero difficile, oggi, dire dove ci porterà.

    Claudia Maria Sini

    ([email protected])

     

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