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    Lui dice Terapia. Io dico Abuso!

    C’è un particolare tipo di tradimento che non proviene da uno sconosciuto, ma da qualcuno che è stato formato per aiutarti. Qualcuno il cui lavoro è guarire. Qualcuno di cui ti dicono di fidarti. Qualcuno che usa la sua professione per sfogare la sua mente malata.

    Sono entrata in una clinica di fisioterapia per riprendermi dal dolore. Ne sono uscita con qualcosa di molto peggio: il mio corpo violato, la mia salute mentale persa e la mia fiducia nei professionisti in frantumi di vetro.

    La mia mente quel dannato 15 gennaio ha subito quello che il giudice stesso ha descritto come stato di SHOCK! Cosa significa?
    Durante un abuso, una donna può entrare in stato di shock, una reazione automatica di sopravvivenza.
    Il corpo può paralizzarsi, la mente può dissociarsi (come se si staccasse dal corpo), e la persona può non riuscire a reagire, parlare o muoversi. Questo avviene perché il cervello percepisce un evento traumatico estremo e cerca di proteggersi.
    È una risposta involontaria, NON una scelta.
    IO stessa mi sono chiesta svariate volte nel sentire episodi di abuso- Ma perché non hanno reagito, gridato, lottato, scappato?- la risposta purtroppo l’ho vissuta e l’ho capita: Questo comportamento è uno scudo naturale della mente per proteggerci da un’esperienza troppo intensa da sopportare, un trauma che ci coglie inaspettato e con persone a cui abbiamo concesso piena fiducia!

    Una volta uscita dallo studio, mi sentivo persa, disorientata, senza emozioni, senza pensieri, senza un senso di niente. Ma nel mentre, ricordo benissimo la ragazza che entrava dopo di me, una ragazza mai vista in vita mia, che non sapevo nemmeno come si chiami, ma il suo viso mi e rimasto impresso nella mia mente!
    Quello che seguì fu un periodo di 8-9 ore in cui io non ero IO, nonostante ho parlato con gente, sono stata in giro con la macchina, ho svolto diverse commissioni, tutto succedeva come se guardassi un film di cui non facevo parte, ero come uno spettatore. La psicologia ha definito questo comportamento come dissociazione post traumatica, di cui ne sono uscita fuori solo nel momento quando sono arrivata a casa. Ed e li che si e scatenato l’inferno. Furono attacchi di panico. Negazione. Tanti perché? Bestemmie. Urla. Rabbia. Tanta rabbia di non aver reagito.
    Il viso della paziente dopo di me. Un ronzio costante di paura sotto la pelle. Questa paura è stata quella che mi ha spinto a denunciare, la paura di lasciare che quest’uomo trattasse un’altra persona nello stesso modo! Nessuno non si merita un trauma del genere, nessuno!
    Continuavo a chiedermi:
    Perché mai qualcuno dovrebbe fare una cosa talmente orrenda?
    Perché non ha avuto paura che lo denunciassi?
    E se non fossi l’unica?
    E se lo facesse di nuovo – se lo ha già fatto – e nessuno ne parlasse?

    L’ho denunciato. Ho parlato.
    Ho seguito ogni protocollo, mi sono presentata davanti a ogni autorità e ho ottenuto un ordine restrittivo. Ho fatto quello che il sistema dice che dovevo fare. Nel frattempo, l’uomo – il fisioterapista con tanta professionalità ed esperienza, italiano, 55 anni, “felicemente” sposato – ha ignorato la legge con la stessa arroganza con cui ha ignorato i miei diritti.
    Ha negato tutto, ovviamente.
    Come se non bastasse, ha continuato a infrangere le regole. Nonostante un ordine restrittivo rilasciato dal giudice in attesa del verdetto, si muoveva liberamente sotto casa mia, come se nulla fosse accaduto. Si comportava come se fosse intoccabile. E onestamente? Per un po’, ho pensato che la legge non fosse giusta e corretta per tutti.

    Dicono che nemmeno il 5% delle persone che subiscono abuso, lo denunci. Le altre se la portano dentro come un cancro invisibile, silenzioso, corrosivo, che cambia la vita per sempre. Ci credo. L’ho vissuto. Denunciare non è facile.
    Ci sono controlli ospedalieri forensi che sembrano traumi ripetuti.
    Ci sono ore di dichiarazioni, documenti, moduli legali. Ma la più grande delusione e che, nonostante tutto, una mente malata, deviata torna a svolgere il suo lavoro, come se niente fosse successo. Si, proprio cosi!
    La licenza di un professionista si ritira solo dopo il verdetto di un giudice, per quale il tempo di attesa non si sa con certezza.

    Ma una cosa è certa: a prescindere dal verdetto, quest’uomo è già segnato. Porterà il rapporto della polizia come una cicatrice. Qualunque cosa faccia nel suo futuro, questo lo seguirà. Silenziosamente. Per sempre. Io sono in pace con me stessa di aver fatto quello che dovevo fare, che un’aula di tribunale lo dichiari “colpevole” o meno, non sono più io a decidere. Ho fatto il mio dovere in qualità di cittadina, persona, paziente, donna, zia, cugina, amica!

    Non si tratta di vendetta. Non si tratta di rabbia. Si tratta di rifiutarsi di accettare il silenzio. Rifiutarsi di portare vergogna addosso per suoi comportamenti prepotenti e orrendi. La vergogna è tutta sua, interamente!


    Sia chiaro: questo non succede solo alle donne.
    Succede ai bambini.
    Succede alle persone gay, non binarie e trans.
    E sì, anche agli uomini, molti dei quali subiscono abusi da altri uomini e si sentono ancora più paralizzati dallo stigma, dalla vergogna che la società si rifiuta ancora di affrontare. L’abuso non ha a che fare con il genere. Riguarda il controllo. Il potere. Questo succede quando qualcuno decide di poter usare un altro essere umano come un oggetto e pensa di farla franca.

    Ma non sempre la fanno franca.
    Questa purtroppo non è solo la mia storia. So che ce ne sono milioni come me, ME intendo in qualità di “persona”, non solo di donna. Racconto la mia storia nella speranza che dia a qualcun altro la forza di raccontare la sua. Voglio essere la prova che si può crollare e poi riprendere. Che si può essere feriti e poi continuare a far sentire la propria voce. Non posso fare pubblicamente il nome al momento, ma appena esce il verdetto, ho tutto il diritto di farlo.

    Ecco qualcosa che io stessa non sapevo: si può denunciare un abuso anche anni dopo che è avvenuto. Cinque anni. Dieci. Di più. Il dolore non a una data di scadenza. Nemmeno il nostro diritto di parola.

    Non è mai troppo tardi!

    Vorrei ringraziare tutte le persone che mi sono state vicine in questo periodo difficile, ringrazio la Policia National per la rapidità con cui hanno agito e ringrazio il centro di attenzione per vittime di abusi CAVIS che mi stanno seguendo in questi mesi.

    Grazie a tutti voi che, nonostante il cammino difficile, non avete mai mollato. Siete esempio che ce la possiamo fare!

    di Qualcuno che si è rifiutata di tacere

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